«“Non può essere vero.” Lina non si capacita dell’ingiustizia che vede aleggiare minacciosa sul suo paese come una nuvola nera. E se la prende con la rivolta di Reggio, con il padre che vi aveva partecipato, con il governo che aveva varato il Pacchetto Colombo e con tutti quei politici e mafiosi che avevano accolto gli investimenti statali come manna dal cielo.
“Corrotti. Criminali. Stronzi. Incompetenti.” La sua voce furibonda si sente da ogni punto della spiaggia e tutti sanno con chi ce l’ha. “Prendono le misure per gli espropri, insistono sul quinto centro siderurgico. Il quinto! Quando già il quarto è malandato, quando nel mondo la siderurgia è in crisi e gli esperti da anni sconsigliano di buttare i soldi in quest’impresa destinata al fallimento. Ma ti rendi conto?” Lina schiaffeggia il mare incolpevole e manca poco che non schiaffeggi pure me.»
Un paese felice di Carmine Abate, recentemente pubblicato da Einaudi, è una sorta di omaggio alla memoria di un luogo che, col suo nome, non c’è più: «Se oggi si cerca Eranova su Google Maps, il nome appare dentro una lingua di mare tra le banchine del porto di Gioia Tauro. Del paese reale non è rimasta nemmeno una pietra. Anche la sua storia è stata rimossa dalla (cattiva) coscienza regionale e nazionale, tanto che, nei libri in cui si ricostruisce nei dettagli la promessa del quinto centro siderurgico, la vicenda di Eranova è liquidata in poche e lacunose righe.»
Il quinto centro siderurgico era stato previsto dal pacchetto Colombo tra i “risarcimenti” alla Calabria dopo la rivolta reggina del 1970-71 in seguito allo spostamento del capoluogo a Catanzaro.
Fortemente voluto da Mancini e criticato da Donat-Cattin e dall’Iri, nonostante la prima pietra posta da Andreotti non è stato mai realizzato. Lo è stato, invece, il porto, con la relativa espropriazione di tutta un’area di fiorente agricoltura. Un paesaggio fatto, per lungo tempo, di varie sfumature di verde e caratterizzato da profumi agrumati ha subito «una parabola così particolare, eppure così universale, in cui si tocca con mano la violenza perpetrata dalla Storia (e dagli uomini) ai danni di un luogo difeso soltanto dalla tenacia inerme dei suoi abitanti.»
Trascinato dal Lina, universitaria ventenne che ha per la sua terra una passione viscerale, il coetaneo Lorenzo partecipa ad una lotta che li vedrà, insieme, crescere e dover affrontare la sconfitta. Lorenzo vorrebbe lasciarsi alle spalle per sempre quelle vicende, che, invece, restano nella sua mente e nel suo cuore: «“Lascia perdere, non devi” mi ripetevo. “Dimentica le ruspe. Dimentica tutto.” Ma le storie sono più tenaci della nostra volontà, persino della memoria collettiva. E, quando pensi di averle rimosse per sempre, t’incalzano fino a sedurti con le loro voci di sirene.»
Il libro è pieno di storie di eranovesi, in cui si riflettono i racconti che i superstiti hanno fatto all’autore fino a far diventare Eranova un personaggio che, in alcuni capitoli, parla in prima persona ed è ricco di rimandi alle vicende di quel periodo (il rapimento di Moro, la fine della guerra in Vietnam, la fuga di Kappler), soprattutto l’uccisione di Pasolini che impedisce al poeta-regista di rispettare la sue promesse a Lina: « “Io non sono, né sarò mai un salvatore di niente e di nessuno, nemmeno di me stesso...” dice. “Però non mi sono mai tirato indietro e non lo farò neanche adesso. Hai ragione, Lina: questa è una follia, un’ingiustizia colossale. Io farò la mia piccola parte, raccoglierò informazioni, racconterò i fatti, ma dovrò essere sicuro di quello che scrivo. Vi vogliono sacrificare sulla base di una logica becera, criminale e affarista, perché siete una minoranza senza voce. Ci sono in ballo miliardi di lire e, immagino, un intreccio occulto tra politica e mafia, ma bisognerà fare i nomi precisi dei potenti, rischiando forse qualche denuncia, qualche minaccia. Il che non mi spaventa: ho avuto venticinque processi, quasi tutti i miei risparmi li ho spesi in avvocati... Ma tutto ciò non servirà a niente se voi non avrete il coraggio di ribellarvi, di lottare contro questo sopruso...”»
Leggendo questo libro di Abate più volte ho ripensato a quanto Giuseppe Lupo scrive contro la tendenza antindustriale della narrativa italiana. È chiaro – e lo era anche negli anni Settanta, tanto che non si fece – che il quinto centro siderurgico era fuori tempo storico, ma lo era e lo è il porto di Gioia Tauro, (peraltro, ora, a rischio chiusura per la nuova direttiva UE sulle emissioni in atmosfera in ambito marittimo)? Certo, ogni cosa nuova comporta, spesso, la fine di altre cose: nel caso specifico, non più agrumi, ma movimentazione di container.
Di certo mantenere la memoria di chi in un luogo ci ha vissuto, ha costruito e, magari, ha dovuto cedere il passo, è un atto di giustizia e verità che la narrativa può compiere alla grande.
*Carmine Abate, Un paese felice, Einaudi, pp. 264, euro 17,50