Ricordo con quanta pignoleria mia nonna aggiungeva l’acqua tiepida, centellinandola verso la fine dell’operazione, fino a che l’impasto non raggiungeva quella che per lei era la consistenza ottimale. Quindi venivano poste a lievitare in un angolo riparato della cucina avvolte in una coperta per alcune ore. Quando il volume della pasta era raddoppiato nonché cosparso di bollicine (bbampuleddhi) si passava alla frittura, in olio rigorosamente d’oliva, in una padella molto profonda (conservo anche quella).
Man mano che si avvicinava l’ora di pranzo arrivavano i figli (cinque ne aveva cresciuti la nonna) e i nipoti e anche qualche imbucato. Bastavano sempre per tutti, anzi ne avanzavano. La nonna non lesinava sui chili di farina da impastare. Ed era felice di appagare il palato di tutti. Per i piccoli c’erano quelle con zucchero o miele, per me e qualcun altro quelle farcite con la ricotta, per quelliche dovevano berci sopra un buon bicchiere di vino quelle “c’a licia”. Lei le assaggiava sempre per ultima, dopo la fine della preparazione e il risciacquo “du bavanu”.
La preparazione delle crespelle era un rito che si celebrava in ogni casa. Quelle palline di pasta fritta, il cui profumo si spandeva anche fuori delle mura domestiche perché “u frittu tradisci” - diceva mia nonna- dispensavano allegria e radunavano nella cucina tutta la famiglia, anche chi siera trasferito fuori e però rientrava per le feste. Si mangiavano in libertà, chi in piedi e chi seduto, bastava un tovagliolino per non ungersi le mani. La gioia, evidente sul volto di ciascuno, molto più che dall’appagamento del palato veniva dal cuore, dal piacere di essere insieme e condividere un momento felice.
Le crespelle si preparano in ogni angolo della Calabria, con nomi diversi però. A forma di ciambella e col nome di curuji in zona Costa degli Dei, con aggiunta di patate lesse e col nome di zippuli oltre che in tanti paesi della città metropolitana di Reggio anche nel basso Jonio catanzarese e nel vibonese. Nel cosentino si chiamano crispe ed hanno forma di ciambella.
Secondo alcuni studiosi furono portate in Calabria dai francesi, altri fanno derivare questa prelibatezza dalla tradizione latina e greca. Nel latino tardo col nome di zippula veniva definito un dolce di pasta fritta addolcito col miele, i Greci usavano il miele come dolcificante e non possiamo escludere che preparassero anche loro qualcosa di simile alle nostre crespelle.
Sono diffuse un po’ in tutto il sud: in Sicilia col nome di crespelle di San Martino si preparano l’undici di Novembre quando si accompagnano col vino novello, ma anche nel periodo natalizio. In Puglia e Basilicata si chiamano pettole. in Campania le zeppoline di pasta cresciuta sono uno street food molto apprezzato.
Più che alla storia della gastronomia le crespelle in Calabria sono collegate alla religiosità popolare, in particolare ai riti del Natale. In tanti centri della regione era diffusa l’usanza, come ex-voto, di friggere crespelle davanti alle chiese e offrirle ai passanti. In passato si offrivano per il piacere di condividere e stare insieme. Un’amica mi racconta che il suo bisnonno usava percorrere la via che da casa sua portava alla chiesa del borgo di San Filippo (sulle alture di Pellaro) con un cesto colmo di crespelle in mano e le offriva in piazza.
Nella cucina della nonna, che ora è mia, le crespelle si preparano ancora, ma solo per la vigilia di Natale e non più “ ’nto bavanu”, basta una ciotola di medie dimensioni, per i quattro gatti che siamo oggi.