Sui casi di Calabria abbiamo domandato a Corrado Alvaro, scrittore calabrese che trae la sua ispirazione prevalentemente dal paese in cui nacque, questa nota sulle condizioni in cui si sono venuti a trovare i contadini e i pastori dell’Aspromonte in seguito alle nuove operazioni di polizia contro il banditismo e la malavita.
Con uno spiegamento d’inviati speciali, la stampa italiana si è buttata sulla “operazione Aspromonte”, secondo il termine cinematografico adottato per l’occasione. In realtà, vi si gira un filmetto mediocre che non vale tanta pubblicità. I Romeo e i Macrì sono esistiti da cinquant’anni, lo sanno i prefetti che si sono succeduti nella provincia, e devono saperlo le forze dell’ordine nei vari Comuni. Questo non è neppure il momento culminante dell’attività della malavita; l’organizzazione è in crisi, è vacante il posto di capo in testa dei tre versanti, alcuni oziosi si eleggono da sé dignitari dell’Onorata società senza avere i quarti di fedina penale sporca che si richiedono per una carica simile. C’è un tale che ssi è dato al banditismo perché suo fratello, bandito anche lui, fu ucciso dai carabinieri mentre dormiva nel suo rifugio, anziché essere catturato vivo. Questi a sua volta si era dato alla macchia dopo avere ucciso un sottufficiale da cui aveva ricevuto uno schiaffo durante un interrogatorio. Una normale operazione di polizia, e meglio una costante azione di polizia, poiché i nomi degli affiliati al banditismo li conoscono perfino i ragazzi della provincia di Reggio Calabria, sarebbero bastate a ripulire l’ambiente, a evitare le riviviscenze, e a scongiurare le dicerie dei reggini: secondo cui l’azione, con l’apparato di uno stato di assedio, sarebbe stata intrapresa soltanto perché un sottosegretario di Stato calabrese è stato per errore fatto segno a un assalto dei banditi.
I calabresi sono, con tutta la loro scontrosità, gente di umore, e scoprono facilmente l’ironia delle cose, specie nelle faccende ufficiali. Hanno visto la progettata zona industriale di Reggio Calabria destinata a lussuoso galoppatoio, per dire un esempio tra i tanti, non proprio esemplari.
Anche tre anni fa, si parlava di Romeo e di Macrì e di Polimeni. Intanto, a Reggio Calabria, era fatto divieto, a chi indossasse un costume da bagno, di fermarsi sulla rotonda dello stabilimento dei bagni a prendere un caffè. Pare che la difesa del pudore, nella seconda Potenza del nudo a scopo di lucro, dopo l’America, sia una faccenda seria. In qualche comune sorgevano i piccoli capi autoproclamati per la difesa della giustizia; “capi bastone”, voglio dire. Poiché si tratta di una malavita che crede di avere per missione raddrizzare i torti, colmare le lacune della giustizia, affrettare le procedure. Purtroppo ha un bilancio, e ricatta i ricchi, non rendendosi conto che tante subitanee ricchezze d’oggi sono fatte onestamente. Ma se ciò nasce in questo forme, e con l’acquiescenza della classe dirigente, significa che qualche cosa non funziona da troppo tempo in Calabria. Se la provincia di Reggio sembra all’opposizione di qualunque governo, non ne è soltanto causa la dura facoltà critica dei calabresi.
È una provincia che ha dato due esempi piuttosto clamorosi. Uno fu quando, nel 1924, una notizia incontrollata, di quelle che arrivano spesso in Calabria, annunziava la caduta di Mussolini. La popolazione si riversò nelle strade, e con a capo le camicie nere fece una dimostrazione di giubilo. La città da allora fu tenuta sotto un controllo pieno di quei rigori fastidiosi che paiono fatti apposta per angariare i meridionali. L’altro episodio fu in occasione della visita di De Gasperi alla città di Reggio a scopo elettorale. Il treno presidenziale, alle fermate prossime alla città si riempì di gente, e fece il suo ingresso alla stazione di Reggio echeggiante di inni, fascisti, questa volta. Non che i calabresi siano tali. Possono esserlo per polemica, per un complesso di inferiorità, perché a scuola imparano la storia ancora nei libri che il Ministero della Pubblica Istruzione non si prende la briga di rivedere; e perché non potendo fare la prosperità della propria regione, fantasticano su una grandezze di cartone della nazione intera. E perché, non certo per partito preso, hanno in mente ancora il concetto tradizionale di appellarsi a una autorità suprema ben identificabile e medievalmente giustiziera, mentre nel fatto collegiale di un governo non hanno quasi mai avuto una risposta soddisfacente. Bisogna ricordare il tempo in cui i sindaci di tutti i Comuni venivano a Roma per rendere omaggio al sovrano. I piccoli primi cittadini dei piccoli Comuni calabresi, uscivano dalle file seminando il panico che precede gli attentati. Volevano soltanto consegnare personalmente la cosiddetta Supplica, nelle mani proprio di lui. Supplica è una parola ancora viva nel linguaggio degli uomini umili in Calabria.
Ricordo certe mattine dei paesi dell’Aspromonte, quando era accaduto un fatto di sangue. Arrivava il tenente dei carabinieri , e i carabinieri con la pellegrina nera e lo zaino affardellato. Andavano in montagna. E la montagna si popolava improvvisamente di gente che aveva un piccolo furtarello sulla coscienza, o un vecchio conto con la giustizia, sia pure estinto. La gente alla macchia si moltiplicava perché si cercava qualcuno alla macchia. Credo di sapere che lo stesso fenomeno si riproduca ora, in occasione dell’”operazione Aspromonte”. Si cercano le connivenze coi “galantuomini”. Ma è da tempo che si sono chiusi gli occhi sulla loro forzata acquiescenza.
Infine, se non si capisce che il problema della società calabrese è un problema di lealtà, che è un’imprudenza lo zelo moralizzatore a due anni dalle elezioni politiche, che non è questione di controllare o intimorire determinate forze ma di creare un’atmosfera di collaborazione coi poteri centrali, l’”operazione Aspromonte” rischia di dare risultati opposti a quelli che si propone.
*articolo di apertura di pagina 5 dell’Espresso (formato quotidiano) del 2 ottobre 1955.