E, più volte, sono state citate le storie raccontate da Michele Belcastro. Nei giorni scorsi ci siamo immersi in quelle storie, leggendo un libro pubblicato nel 2022, dal titolo non privo di fascino, “Passato e Presente
Quante storie…”, con quei puntini sospensivi a suscitare la curiosità del lettore. L’autore, Michele Belcastro appunto, si presenta nella quarta di copertina come un uomo del 1938, nato in Sila, vissuto da bambino e da ragazzo alla Presa del Tacina, mai andato a scuola sino all’età di undici anni. Il libro è una vera e propria epopea degli anni in cui la Sila si avviò verso la modernità, in un equilibrio fra l’industria del legno e la nascita dei grandi impianti idroelettrici degli anni trenta.
Michele racconta in prima persona come ha vissuto quegli anni, quando, piccolissimo, fu portato dai genitori a vivere alle sorgenti del fiume Tacina, dove la S.M.E. stava prelevava acqua preziosa da addurre in galleria al lago Ampollino. Il tutto poco lontano dalla storica caserma Forestale (tuttora un vero gioiello di architettura di montagna), nella meraviglia della foresta del Gariglione, il più bel bosco della Sila. Belcastro racconta che la presa del fiume Tacina era a quei tempi “per un raggio di 12 Km l’unico avamposto abitato dall’uomo… D’inverno non si vedeva anima viva”. Era una vita solitaria “senza tutti i
patemi d’animo che oggi affliggono la società moderna”, bisognava darsi da fare, al punto di costruire da sé i bicchieri, con un metodo tanto fantasioso quanto geniale, bisognava percorrere molti chilometri a piedi e valicare il Monte Scorciavuoi per rifornirsi di viveri o incontrare di tanto in tanto parenti e amici.
Eppure era una vita felice. Poi vennero la scuola, il diploma di avviamento professionale, una vita spesa presso i bacini idroelettrici silani, per scelta, seguendo “il richiamo della foresta”, cercando “il fruscio del vento”, musica per le sue orecchie. Le pagine del libro traboccano di amore per la Sila, nonostante condizioni di vita e di lavoro dure. Nonostante quell’amore gli abbia fatto rischiare la vita, come quando cadde nel lago Arvo coperto dal ghiaccio, con una temperatura esterna di sedici gradi sotto lo zero. E mostrano una crescita culturale e una profondità d’animo non comuni, degne di grande rispetto.
Nell’introduzione Michele Belcastro scrive a proposito dei suoi racconti “…Che farne? Lasciarli marcire come foglie in uno stagno o renderli pubblici?...” e rivela la sua visione della vita “… Fin quando si è in vita, nulla è precluso, tutto è possibile, il mistero è dopo la morte…”. Parole che richiamano quelle di Lawrence Ferlinghetti, poeta, pittore, scrittore americano, quando si chiede perché scrivere una poesia quando non la si recita, o una canzone quando non la si canta.
I racconti personali si alternano alla descrizione di luoghi o di personaggi più o meno famosi, come la
Marchesa De Seta, Giuseppe Tallarico, “Il medico biologo con le ali di poeta”, Rosario Foglia, “il Van Gogh
sangiovannese”. E non mancano le note scientifiche, con una breve e precisa dissertazione sul sistema
solare. E le utili note sui laghi silani accompagnate da una mappa topografica a schema deformato, con una precisa descrizione dei bacini idroelettrici, dei loro collegamenti e delle centrali, qualcosa che ricorda (ci si consenta il paragone) la Tavola Peutingeriana, l’antica carta romana che mostrava le strade dell’impero con una visione d’insieme si distorta ma efficace. La curiosità intellettuale e lo spessore delle idee emergono soprattutto quando Michele Belcastro affronta temi della vita quotidiana. La pandemia, la morte di George Floyd, la globalizzazione, la volatilità dei social, lo portano a riflettere sulla nostra fortuna di vivere in un meraviglioso pianeta, citando l’astronomo francese Camille Flammarion.
Una considerazione solo apparentemente ingenua, in realtà ancorata a una solida esperienza di vita e a un innato ottimismo. E a un valore che in tempi recenti, grazie al Professore Vito Teti, è assurto alla notorietà e alimenta il dibattito, quello della restanza. Restare nei propri luoghi, resistere a condizioni oggettive difficili, da quelle ambientali a quelle logistiche, affermare la propria appartenenza a una terra, la propria terra. Michele Belcastro è un restante e un resistente, e ci offre il punto di vista di un “nativo”, di un uomo profondamente radicato nella sua montagna. Lo fa anche quando ci ricorda che i sentieri sono sempre esistiti, “…Bastava incamminarsi su di essi e, dritto, dritto, ti conducevano al punto giusto…”. Quei sentieri oggi percorsi da escursionisti animati dalle più disparate motivazioni, con l’abito mentale dei cittadini che cercano il contatto con l’esotico, un tempo erano vie di sopravvivenza, ben stampate come mappe nella mente, erano vie di tradizioni e di saperi, erano il social network del tempo.
“Passato e Presente…Quante storie…” dovrebbe essere adottato come libro di testo nelle scuole, con le sue testimonianze di valore storico. Dovrebbe essere letto dai frequentatori della montagna, quelli più attenti, quelli più motivati. E non possiamo non essere riconoscenti a Michele Belcastro per la sua preziosa lezione di vita e di saggezza. Leggere il suo libro ci ha arricchito.