di GIUSEPPE TRIPODI - Pìritu, scorreggia, e piritari, scorreggiare, dall’onomatopea prrrrrrr… ma forse anche dal greco pur-puròs, fuoco; il suono infatti, che quando è forte viene assimilato iperbolicamente al tuono (Chi? Tronìa oggi?- era l’espressione che il vicino impertinente rivolgeva al piritante), era considerato il risultato di una combustione di gas interni allo stomaco (comunemente si parla anche del bruciore di stomaco).
Ovviamente il calabrese registrava il diminutivo (piritìllu), emissione delicata di signorina o di bambino, l’accrescitivo piritùni ( suono maschile composto e quasi baritonale) il dispregiativo piritazzu (scomposto e preludente all’inevadibile evacuazione, tronu di culu tempurali di merda) e, ancora, in piritàru (colui che scorreggia spesso).
Uno dei nostri più chiari ricordi infantili riguarda l’espediente attivato dai grandi per mascherare le loro emissioni o, meglio, per depotenziarne la scostumatezza; se colti in flagranza di scoreggia ed in presenza di bambini negavano ogni addebito e proponeva di scoprire il colpevole mediante lo scrutinio, equivalente calabro dell’ambarambacicìcocò.
Iniziava così la conta utilizzando la tiritera Fetu fetìllu / iàmu nti Mastru Tillu / Mastru Tillu non è ccà / mpì, mpù, mpà / lu piritìllu veni di ddhà! che terminava immancabilmente sul più giovane dei presenti il quale, certo della sua incolpevolezza, pretendeva che si ripetesse l’operazione tiritera partendo da un soggetto diverso della compagnia.
Ma al contante bastava, a seconda della bisogna, sdoppiare una parola bisillaba o pronunciarne due ad un tocco determinato perché lo scrutinio si concludesse sempre con lo stesso esito. Fino a quando il bambino non capiva che per discolparsi della calunnia doveva contare lui.
Ma alla richiesta i più grandi ribattevano che ormai, essendo trascorso troppo tempo dall’emissione del pirito ed essendo evaporata la puzza, non sussistevano gli elementi materiali per una verifica che avesse un minimo di attendibilità.
L’italiano, al contrario del dialetto, è in proposito meno circostanziato e quasi reticente: infatti se consultate un vocabolario italiano (ad esempio il Zanichelli scolastico) troverete solo lemmi striminziti dedicati alla scoreggia (non più di due righe) e alla flatulenza (che è un francesismo con ascendenze latine da flatus,soffio), nonché, rarissimo e quasi sconosciuto ai parlanti, vescia (dal latino tardo vissire, fare peti) .
Si direbbe che il linguaggio popolare fosse più “sottile” in ordine alle emissioni corporali e, quando qualcuno sentiva l’esigenza impellente di liberare i gas del suo intestino e ricorreva allo sfiato consueto senza troppa attenzione, ci poteva essere chi proferiva inviti perentori e volgari (“Càchiti!”) ma anche chi si affrettava di augurare un quanto mai appropriato “Saluti!”.
La riservatezza nello svolgimento delle attività fisiologiche è forse la caratteristica più delicata della “civiltà” e costituisce il “rimosso” dell’esistenza umana, con inevitabile riflesso sulle attività vagamente identificate come culturali; sicché alle attività digestive, indispensabili quanto mai alla sopravvivenza di ognuno di noi, e alle aerofonie non solo viene dedicato poca attenzione linguistica ma, ancor più, attenzione infinitesima o nulla nelle attività che gli uomini considerano “alte” come la filosofia, l’estetica o la letteratura.
Le classi popolari hanno invece avuto un tempo meno remore a “manipolare” culturalmente, specialmente in certi contesti come gli agoni poetici o le attività comico-teatrali, ciò che la cultura alta aveva rimosso il favore di attività più nobili identificati genericamente come “sentimenti”.