di GIUSEPPE TRIPODI - Corda, sorella gemella e omozigotica della corrispondente parola italiana; entrambe rinviano alla parola latina Chorda-aee a quella greca Chordé-es, assonanti rispettivamente con Cor-cordise con Kardia-as ma anche con l’antico germanico Herza, da cui sono derivati gli anglosassoni Herz ed Hearth, indicanti il cuore ma anche il petto.
Dobbiamo ad uno dei più grandi (e appartati) studiosi delle lingue antiche la scoperta che, oltre all’assonanza, esiste anche una parentela di senso: infatti l’etimologia risale fino alle lingue antiche mediorientali con l’ittita Karad, la semita Karis e l’accadica Karsu, che significano: parte interna del corpo (da cui Cor e Kardia), intestino, budello (notoriamente di forma simile alla corda), corda della lira, ma anche salsiccia (carne insaccata nelle budella)(G. Semerano, Dizionario della lingua greca, Firenze, Olschki, Firenze, 1994-2002, alla voce Chordé).
I significati dell’italiano corda sono articolati intorno a legaccio (con varianti sportive, musicali, biologiche e giudiziarie) mentre il calabrese presenta corda di saddìzzu, che rimanda al greco Chordé-es (budello), Cordeùo (insacco, infarcisco, faccio salsicce) nonché a Chordeuma-tos, salsiccia, intesa come salsiccia intera perché c’è anche il saddizzu a ruppa (groppi), con il connesso e minaccioso proverbio, rivolto a chi intende mangiare da solo e non si rende conto che dovrà pensare anche ai giorni in cui le salsicce non ci saranno più e dovrà rivolgersi agli altri, nci su cchiù jorna chi ruppa i saddizzu.
Esistevano espressioni del tipo cacari cordi (evacuare gli intestini in tempi molto lunghi), pèrdiri porcu e corda (fare un’operazione economica assolutamente fallimentare) e jri nd’arrètu nd’arrètu comu i cordari (andare sempre indietro come i cordai quando torcevano le corde), nonché l’importantissimo proverbio a boi sarvàggiu corda longa dedicato a chi ha a che fare con persone forti e bizzose come il bue selvaggio (mogli e giovani soprattutto); con esse è inutile usare atteggiamenti restrittivi (le corde corte); meglio la corda lunga che li fa sfogare e stancare un po’ e successivamente, quando sono fiaccate, sono più facilmente ammansibili.
Rilevantissimo il verbo ccurdari indicante l’azione delle famiglie povere che non potendo, per l’indigenza, mantenere i loro figlioli li asservivano alle famiglie ricche in cambio del solo cibo e dell’alloggio. Un vero e proprio contratto di schiavitù, fonte di maltrattamenti e di abusi facilmente immaginabili, da cui si usciva, solo e non sempre, con la maggiore età. In questo caso i due significati antichissimi, accordo da Cor-cordis e legame da Chorda-ae, finivano per congiungersi.
Ma la civiltà contadina conosceva diversi tipi di corda: quella per antonomasia era di canapa ma ne esistevano di meno robuste fatte, ad esempio, di liàra o di jnèstra, cioè con le fibre dell’agave o della ginestra.
E poi la grande varietà dei sinonimi, oggi tutti estinti: la paricchiàla era una corda di una diecina di metri, legata alle corna della coppia di buoi per guidarli meglio tirando da una parte o dall’altra sia quando erano aggiogati all’aratro, al carro o sull’aia per la trebbiatura; la mpàiula lunga un paio di metri con cui si mpaiàva il bue, si legava cioè il giogo al suo collo appaiandolo così con il suo compagno di lavoro; la cropa lunga tre-quattro metri con cui legava il carico (si ncropava, con ncropari che sostituisce in tutto il verbo legare) al basto dell’asino o del mulo.
Oltre a quelle menzionate sopra, tutte di sezione robusta, c’erano le corde più sottili ma non meno utili come la sàula o sàgula (con il diminutivo saulédda ma anche con l’antroponimo Sagolèo ed etimo nella parola greca moderna Sàgoula, cordicella) che serviva, ad esempio, a condurre al mercato gli animali minùti, pecore o capre per lo più, o anche il romanèddu, di etimo incerto ma con lo stesso significato e la medesima funzione.