di GIUSEPPE TRIPODI - Tìngiri o tingìri, a differenza del verbo italiano, focalizzato semanticamente attorno al colorare, la parola calabrese è più ricca dal punto di vista antropologico e significa segnare negativamente qualcuno, danneggiare: da cui tingiùtu, sventurato, ma anche nell’espressione tu mi tingisti ed eu ti nniiricai che sta ad indicare reciproca fregatura nei rapporti affettivi (ad esempio tra il marito che aveva nascosto alla moglie la sua indigenza ed era stato ingannato da essa circa la sua onorabilità), ma anche nello scambio commerciale: da antologia lo scambio tra il pescivendolo, che aveva venduto merce avariata e che dopo l’affare aveva sghignazzato a lu frìeri ti vogghiu, e il falsario che, avendo pagato con moneta taroccata, aveva ribattuto: “A lu frìeri? A lu scangiàri, bellu meu!”.
Anche il participio tintu, con il rafforzativo nimalitìntu, é dispregiativo e indica chi non sa trarsi d’impaccio o chi è impedito nei movimenti o abulico fino alla malattia: maru a cu non avi e tintu a cu non poti! (povero chi non ha di suo ma peggio ancora chi non sa e non può agire).
La parola, come tante altre, è comune al siciliano come testimonia Leonardo Sciascia che, però, accoglie l’inaccettabile etimologia del Pasqualino: “Non a tinctum, ex tingo, sed a tentum ex tenere: tenuto, detenuto, prigioniero della pigrizia; e dunque pigro, inetto. E ‘tinturia’, pigrezza, lentezza”(Occhio di capra, Milano, Adelphi, 1990, alla voce).
Invece l’etimologia è proprio quella esclusa da Pasqualino e da Sciascia ed ha, secondo la ricostruzione che ha fatto Santo Mazzarino sulla scorta del linguista Pagliaro, radice molto antiche: tinctus aveva assunto il significato calabro-siculo già nel periodo successivo all’età costantiniana quando, riconosciuta la chiesa dall’impero, il radicalismo antiromano si coniugò in Africa settentrionale con l’eresia antipapale dei donatisti.
Per costoro i sacerdoti scivolati (lapsi) nel compromesso con il potere romano prima del riconoscimento del 313, e poi in genere tutti i sacerdoti immorali, celebravano vanamente i sacramenti, in specie il battesimo; sacramenti che, per essere efficaci, dovevano essere celebrati da persone degne: “Alla passionale intransigenza degli africani i concetti della validità obiettiva dei sacramenti era certamente estraneo: i loro avversari non dovevano essere considerati baptizati, ma tincti” (Santo Mazzarino, L’impero romano, Bari, Laterza, 1973, p. 655).