di TIZIANA CALABRÒ - I morti erano boe in mezzo al mare, nelle case dei nonni. Fluttuavano immobili sui muri delle stanze antiche, avvolti in cornici dagli intarsi consunti o - tra vecchie toilette e orologi lenti - ondeggiavano placidi sui ripiani di marmo delle credenze. Questi ultimi i più fortunati, perché a loro era riservata “la corrispondenza di amorosi sensi”, profumata di fiori aperti e colorati, adagiati dentro i vasi di casa. In qualsiasi stanza si andasse a giocare, i bambini sentivamo lo sguardo rassicurante dei morti che era lì, anche se arrivava da un tempo altro e lontano e misterioso.
Loro, i morti, che senza saperlo, senza volerlo, in un attimo della loro vita, fissando l’obiettivo del fotografo, hanno rivolto lo sguardo verso un futuro che non avrebbero abitato. Lo stesso futuro che un giorno, gli avrebbe rimandato occhi furtivi, tra giochi e merende. I morti nelle case dei nonni o delle pro-zie, erano molto più di una fotografia chiusa dietro un vetro. I morti erano il racconto di un passato e di una storia unica. La storia della propria famiglia. Erano la memoria che i bambini assorbivamo attraverso i loro sguardi, le pose immobili, i vestiti indossati per l’occasione, i baffi esagerati del bis-nonno dagli occhi austeri, gli orecchini della bis-nonna, un piede un po’ più avanti dell’altro, le composizioni familiari, il fiocco enorme sulla testa dell’ultimogenita, il soldato giovane e sfrontato in divisa che dalla guerra non sarebbe tornato, la sigaretta chiusa tra le labbra sbruffone di un pro-zio tombeur de femmes.
Ma i morti erano anche il racconto fuoriuscito dalle voci roche dei custodi del tempo passato. Il racconto ripetuto millemila volte, che si insinuava nelle orecchie dei bambini e con lui la percezione di venire da un tempo che gli apparteneva, da un linguaggio amoroso di vite in divenire. Il racconto che ammansiva il tempo e lo spazio, facendo viaggiare questo amore, senza imprigionarlo muto in anni perduti. Così i nonni o qualche prozia sopravvissuta agli acciacchi e al tempo, restituivano la memoria di un passato che apparteneva loro, seminando il desiderio di luoghi dove poter tornare.
Hanno lasciato, attraverso le vite narrate dei morti, l’amore per la vita, per i mattini e i giorni, l’amore per le storie narrate. Hanno rinnovato i luoghi dell’appartenenza, attraverso “la celeste dote degli umani” di tessere fili e legami.
E i morti, grati per questi occhi persi nel tempo, per le lettere di fiori, per un amore mai spento, il giorno del loro ricordo, escono dalle loro cornici consunte, scendono dai muri e dalle credenze, attraversano le stanze immerse nella notte, per portare i dolcetti ai piccoli depositari della memoria, così inchinandosi dinanzi alla loro innocenza, che sola può preservarne le storie.