di ANTONIO CALABRO'
Pino Daniele se ne è andato. Le sue canzoni hanno accompagnato un’intera generazione nel transito dalla gioventù alla maturità. Le sue canzoni sono diventate modi di dire, proverbi, perle di saggezza, riferimenti culturali, colonne sonore d’amori fiammanti e perduti nel tempo; le sue canzoni sono state lotta e incontro, lacrime e risate, notti incantate e giorni speranzosi. La musica di Pino Daniele è il mausoleo di quella voglia – irrazionale, utopistica, svergognatamente ingenua - che la nostra generazione ha covato, per poi perderla definitivamente nello squallore di una società refrattaria ai poeti: cambiare il mondo, e vivere per intero.
Tutto era nato da una “Tazzulella i cafè”. Da quella voce strana, inconfondibile, con quel marcato accento napoletano che la poneva tra il portoghese delle Favellas a e l’inglese degli Slum; e dai versi che galleggiavano sulla sua chitarra, spiazzanti, autentici, malinconici oppure allegri, ma sempre toccanti.
Toccare le corde più nascoste, farle vibrare senza pudore, spingere a gettare la maschera, a guardare senza paura la verità e accettarne le conseguenza. Scherzando e ridendo, con l’attenuante della pazzia (Je so’ pazzo), Pino Daniele all’improvviso, - eravamo nel 1979 – si leva la bella soddisfazione di mandare al diavolo tutta la società artificiosamente costruita: Io son pazzo, io so pazzo, non ci scassate … Una esclamazione salvifica, una esplosione di ribellione, di vita.
Questa sua prima rima fortunata incarnò alla perfezione (e ancora incarna) la rabbia di chi assisteva all’alba dell’edonismo Reaganiano, di chi osservava attonito lo smarrimento di qualsiasi resistenza ad un sistema ipocrita, corrotto, mercantile; con una risata spazzeremo via le vostre certezze fasulle, con la musica scopriremo gli altarini dei beceri porcelli che governano la terra, con il ritmo, e con il Blues, canteremo i mille modi di amare il mondo e la vita. Con la sua musica, spesso, lo abbiamo fatto. Pino Daniele era il simulacro delle voci interiori: testi e musica sembravano appartenere già da prima a chi li ascoltava, sembravano provenire dalla terra nascosta che i meridionali possiedono nell’anima: Terra Mia, appunto.
Pino Daniele non ha soltanto cantato l’amore: lo ha reso vivo, esaltandone ogni suo aspetto. Le sue “Ballad” provocano brividi d’abbandono, le esitazioni del respiro frenato dal desiderio, il sorriso ai margini e l’accelerazione del cuore. “E te sento quando scinne e’ scale”, e già le note sono luna piena di Luglio e carezze e baci al miele. Scioglievano ogni nodo, rendevano audaci, giustificavano ogni follia. Oso azzardare su qualche dozzina di milioni di baci e di notti roventi con la sua musica come sottofondo.
Pino Daniele cantava la sua percezione dell’ingiustizia in modi diversi: a volte drammaticamente, senza sconti di speranza e senza essere mai patetico; altre volte con il sarcasmo proprio dell’artista che vola in alto da dove può godere di una visione d’insieme che, pur sconcertandolo per l’enormità delle iniquità, lo portava a considerare bonariamente questa sottospecie di cavalletta che è l’esser umano. Il suo amore si percepisce tutto; la sua empatia è magnetica, la sua appartenenza devota.
In Calabria ho visto Pino Daniele tantissime volte dal vivo. Indimenticabile la prima, allo stadio di Nicastro, a Luglio del 1980, con una super band (Senese, Marangolo, Esposito) e con migliaia dei ragazzi dell’epoca che ancora pensavano che la libertà fosse possibile. Non sospettavano affatto che l’autostrada è un muro. Nello stesso anno fece tappa a Reggio, dove poi tornò in almeno altre tre occasioni, sempre con grande successo e gioia dei reggini, sempre numerosissimi alle sue performance.
Si ballava come forsennati, ci si abbracciava e ci si baciava, lui vestito di bianco come un pulcinella dettava i tempi, con la chitarra imperiosa e gli altri musicisti a fare il diavolo in quattro. Erano altri tempi, era la gioventù prepotente e orgogliosa, era la nostra storia.
Dimmi qualcosa, Pino, nun me lassà accusì.