Sul sito di fumettologica.it è apparso un articolo che “comprende otto conversazioni sul fumetto fra Gianni De Luca e la figlia Laura, fedelmente trascritte da altrettante registrazioni realizzate non continuativamente fra il 1987 e il 1991”.
“Mio padre Gianni De Luca – scrive la figlia nella prefazione – è annoverato tra i massimi autori del fumetto italiano, ciò nonostante misconosciuto e sottovalutato in patria soprattutto a causa della sua volontaria autosegregazione nel ‘ghetto’ dell’editoria cattolica. Del Fumetto egli avrebbe voluto contribuire a fare (e solo in parte riuscì nell’impresa) uno dei più efficaci mezzi di comunicazione e di educazione all’immagine, ritenendolo il più adatto ai nostri tempi nonostante lo strapotere di altri media”.
In queste interviste, spesso il discorso torna sulla Calabria. Ne riprendiamo alcuni brani:
L: Tu eri venuto su dalla Calabria da appena sette anni. Cioè ne avevi sei, quando la lasciasti. Te la ricordavi? Te la ricordi? E cosa ti ricordi oggi, della Calabria di allora?
G: È difficile… ricordarsi di un ricordo. È quasi come entrare nella memoria di un’altra persona. E io, probabilmente, a sei anni ero veramente un’altra persona. Mi ricordo del rosa dell’alba sullo Ionio. Il mare lo vedevo dal terrazzino di casa mia, lontano, all’orizzonte. Una striscia cobalto. Mi ricordo il profumo dell’origano, l’odore del sapone di strutto e cenere. Mi ricordo il buio, quando mia madre spegneva la luce. Un buio che chi è nato in una città non conosce…
L: E allora spiegamelo.
G: Un buio assoluto, totale, simile a quello che avrà assillato l’ignoto autore dei bisonti volanti ad Altamira quando, in qualche notte senza luna, avrà messo il naso fuori dalla sua caverna… solo chi ha visto quel buio, presumibilmente, (intendo quel vuoto assoluto di forme, di spiragli, di chiarori) può davvero capire il Disegno.
L: Vuoi dire che la generazione delle metropoli il Disegno non lo potrà capire mai?
G: Un certo Disegno forse no. Un Disegno fatto di essenzialità e di cultura, di povertà e di ricchezza insieme… in questo, l’essere nato in un paesino della Calabria mi ha aiutato.
L: Mi sono persa… torniamo per un momento alla tua Calabria dei cieli neri… la lasciaste perché…?
G: Lo sai perché. Non c’era lavoro. Non c’erano possibilità.
L: Io, la questione meridionale mi ricordo di averla studiata a scuola… quella famosa relazione di Nitti sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria… lui diceva di aver fiducia che quando un giorno la Calabria fosse stata coperta di boschi e quando fossero state sistemate le acque e la malaria debellata, si sarebbe aperto un grande sviluppo di ricchezza agraria e industriale. Perché secondo te non è mai successo?
G: Non lo so se non è mai successo… certo Nitti parlava bene ma… non era molto meridionale. Lo era un po’. Non apparteneva al profondo Sud. Solo chi è di quel Sud dimenticato (quello senza università e senza strade, per intenderci), può veramente capire. Cristo si è davvero fermato ad Eboli.
L: Che vuol dire?
G: Che il Sud è uno stato d’animo, con tutte le sue miserie, i suoi ritardi. C’è di mezzo il fato, quello dei Greci, la rassegnazione, una specie di vedovanza eterna…
L: Però tuo padre, cioè mio nonno, non ci si è rassegnato mica a quella miseria. Ha chiuso la casetta col terrazzo che scopriva il mare ed è partito per la capitale…
G: Ma è sempre rimasto uno del Sud. È sempre rimasto al Sud. Di cuore, di mente, di stato. Questo intendo con “vedovanza”. Una separazione che rimane, un distacco che marchia per sempre. Secondo me, sui documenti anagrafici, accanto alla specifica sullo stato civile, si dovrebbe inserire quello sulla meridionalità. Sposato o celibe. Meridionale o no. Nel senso: appartenente o no a qualsiasi meridione della Terra, Calabria o Africa che sia.
L: Faresti felice quel pazzo… come si chiama? Quel Bossi…
G: Non voglio fare del razzismo. Parlo proprio in quanto meridionale. Il Sud è un modo di pensiero. Mi passi il termine, tu che hai studiato filosofia? Il Sud è una categoria. Mi vengono in mente Campanella, Giordano Bruno, Socrate, se vuoi. A Sud si attende. I contributi, il calare del sole, l’intervento dello Stato, nonché che i fichi maturino sulla pianta… si attende, anzi si sta. In contemplazione, in estasi, pensala come ti pare.
L: Allora è anche per questo che al Sud c’è la mafia?
G: “Mala jente” diceva mia madre. La mafia è una punizione del Sud, mica una sua manifestazione.
L: Ma cosa c’entra tutto questo col Fumetto?
G: Dovrai dirmelo tu.
L: Mi sono persa per strada. Volevo sapere che cosa ti ricordi della Calabria, di quando sei partito, ed eccoci qui a parlare di categorie di pensiero.
G: Te l’ho detto. Mi ricordo di un certo buio. Di un certo rosa e di un certo cobalto.
L: Colori?
G: E poi di certe figure, mi ricordo, che mi danno brividi retroattivi. Quelle donne sempre velate, nere, con una specie di chador perennemente in testa. Insomma le Parche. Collocate a ogni angolo di vicolo come promemoria. Al Sud ci sono sempre vedove, il Sud è una vedova.
L: Di cosa?
G: Del resto dello stato, del resto del mondo. È un abbandono cosmico.
L: C’è un tuo disegno a china di una di queste vedove. L’ho visto una volta, qui in questo tuo marasma di cose… hai capito a che alludo?
G: Uhm… sì, forse… è una cosa del ’52 …
L: Lo intitolerei “Disperazione di donna del Sud” È la disperazione di una vedova? O di una donna come tua madre che a un certo punto dovette partirsene per la capitale?
G: O forse di mia nonna… chissà… che ci vide partire e iniziò ad aspettare che ritornassimo… aspettò fino alla morte…
L: Uhm… poi che altro ti ricordi della Calabria? Di questo attendere?
G: Non lo so… vagamente… una volta, (ma è una specie di dagherrotipo sbiaditissimo…) certi signori del Nord vennero da noi in visita e furono accolti con tutti gli onori. C’era qualcosa di borbonico in quella cerimonia, almeno come me la rivedo io, che giravo praticamente scalzo nelle classiche “braghe di tela”, e c’era l’arciprete con la tonaca fino ai piedi che si prostrava davanti a questi visitatori “schranieri”… scendevano da una specie di diligenza, sulla strada bianca davanti alla chiesa…
L: Quella dove tu, quasi quarant’anni dopo, avresti affrescato il San Pietro?
G: Quella… ed era estate e faceva un gran caldo e l’acqua ancora non c’era nonostante le speranze di Nitti, e quelli si asciugavano il sudore delle fronti con certi fazzoletti bianchi. Ispettori del Governo? Chissà. Inviati del tuo Nitti, certo non potevano più essere. Sarà stato il 1930, forse il 1931… magari venivano dalla Prefettura… non lo so.
L: È con questo aereo bagaglio di “immagini” nella tua mente, che sei sbarcato a Roma?
G: Chissà con quante altre di cui né allora né ora potrei dirti nulla. Svanite. Ci pensi quante immagini si perdono nel corso di una vita? Dove finiranno? Ci sarà una banca delle immagini di tutta l’umanità, un cantinone?
L: Può darsi. Magari ci starà dentro anche la Pop Art…
G: Perché no?
L: Non divagare, per piacere. Dunque tirando le somme, mi pare si possa ufficialmente ammettere che sei più romano che calabrese.
G: Fai tu. Io mi sento piuttosto greco, europeo… universale.
L: Già. Dovevo saperlo. Ma pensi che… che per esempio quei colori di Calabria (proprio quelli, non altri) abbiano avuto in qualche modo il tempo di determinare il tuo modo di essere, e quindi di diventare?
G: Di questo sono sicuro. Uno non è quello che è per un caso della sorte, per capriccio, diciamo, delle sue molecole. Ci deve essere un destino, un tracciato. (Le Parche!) Io vengo da quel buio del cielo senza luce elettrica e da quel nero delle eterne vedove e di questo sono fiero, diciamo consapevole. [...] Del resto il Fumetto, la grafica in genere, non si giocano proprio sul bianco e sul nero? È un sistema perfettamente binario. L’inchiostro di china è il mio erpice.
L: Il nero della Calabria, dunque.
G: Il nero dei cieli primitivi, direi. Alla faccia di Ramsden e dei suoi trucchetti.
L: Non abbiamo prove della sua malafede.
G: Neppure di quella buona.
L: E gli altri colori?
G: Perché dici gli “altri”? Abbiamo parlato, finora, solo di nero.
L: Sì, lo so che il nero non è un colore.
G: Rosa di alba e Jonio cobalto. Aggiungici, se vuoi il verde metallico degli ulivi. Te li ricordi, no? Se non c’è vento, gli uliveti sembrano distese di arnesi impolverati, in disuso. Basta un alito e ti svelano la loro anima argentata, la loro doppiezza di creature… la realtà è apparenza. E non solo quello che appare è reale.