di GIUSEPPE TRIPODI -
armacèra, muro a secco utilizzato per contenere il terreno nella coltivazione dei terreni scoscesi (in questo caso la testa è a raso) o per dividere fondi finitimi (con fondazione e sviluppo fuori terra che può arrivare a un metro e anche oltre). L’origine è nel latino maceria-ae (legata al greco màkellon, chiusa), da cui la macèra dei dialetti laziali e centroitaliani, nonché nel greco ermakìa che ha generato il grecanico armacìa (G. Falcone, Il dialetto romaico della Bovesia, Milano, Istituto lombardo di scienze e lettere 1973, p. 421).
La fonte grecanica è però érma-érmata che G. Semerano (Dizionario della lingua greca, Firenze Olschki, 2002, alla voce) traduce con “pietre poste lungo la riva di un fiume, come riparo, argine contro le onde, quindi pietre, base, sostegno, zavorra, ermàzo, ermatìzo, consolido, sostegno”.
Le armacère calabre scandivano i terrazzamenti a vigneto (le famose Lenze) o a uliveto e servivano anche come fragile argine a un corso d’acqua, magari da rinforzare piantandovi nei pressi alberi da siepe come gli oleandri o le brughiere.
L’armacèra come forma di costruzione povera esiste in molte parti del mondo (Cesare l’aveva trovata in Gallia e l’aveva battezzata murus Gallicus) e, oltre che in Calabria, è molto usata nell’area ligure (Cinque terre), in Puglia e nelle grandi isole italiane.
In Sardegna, patria di muri a secco monumentali che sfidano il tempo da diversi millenni (i nuraghi), le armacère sono dette tancas e servono a chiudere (tancare appunto) grandi appezzamenti di terreno (Tanche) costituiti nei primi decenni dell’Ottocento privatizzando i beni adibiti ad usi civici della comunità.
La privatizzazione (Editto delle Chiudende del 6 ottobre 1820) generò la rivolta popolare detta de Su connottu (il conosciuto) perché la gente dei paesi voleva continuare ad usare come prima i beni comuni.
Il poeta macomerese Melchiorre Murenu, cieco in seguito ad una infezione di vaiolo, così tuonò contro la rapacità dei nuovi proprietari: tancas serradas a muru/ fattas a s’afferra afferra/ si su chelu fidi in terra/ l’aìan serradu puru (tanche chiuse con i muri a secco/ fatte ad afferra afferra/ se il cielo fosse stato in terra/ l’avrebbero chiuso pure) e forse per questo fu gettato in un precipizio e ucciso.
Una bella metafora che rimanda al muro a secco è quella di un noto politico, più volte sindaco della città in cui vivo, il quale rispondeva così a chi gli chiedeva il licenziamento o lo spostamento di qualche assessore: “No! Io non muovo niente perché un’amministrazione è come una macèra. Se tocchi una pietra rischia di venir giù tutto!”. Un modo di sottolineare la fragilità della costruzione amministrativa ed anche l’importanza di non alterarla con inutili colpi di mano.
Tutto nelle armacère rimanda alla precarietà e talvolta diventa metafora dell’amore, effimero per antonomasia: come nella chiusa dello strambotto raccolto da Mario Mandalari a Condofuri alla fine dell’Ottocento (Canti del popolo reggino, Napoli, Morano 1881, p. 382):
Lu briu perdisti e puru la to’ cera
La to’ facci non avi cchiù figura
Si rrumpìu l’asta di la to’ bandera
E la testa poi dari pi li mura.
Si stutau lu micciu di la to lumèra,
ca ci catti ogghiu e lu focu non dura.
L’amuri è fattu comu n’armacèra
Travàgghi n’annu e si spàscia nta n’ura.