ELEZIONI. Verso il voto tra sogni e realismo

ELEZIONI. Verso il voto tra sogni e realismo
Nonostante la tracotanza di Meloni e Salvini, il voto è sempre un’incognita, specie con i nuovi enormi collegi  uninominali e con la scomposizione dell’ala moderata di quello che un tempo si chiamava centrodestra. Il peggiore nemico del centrodestra non è però il Partito Democratico ma è la sicurezza di avere la vittoria elettorale in tasca, come se la propaganda sotto l’ombrellone fosse una pratica fastidiosa e sudaticcia da evadere in poche settimane. E poi via, sulle ali dello spirito sovranista, dentro le stanze dei ministeri per rottamare milioni di cartelle esattoriali, bloccare porti, abbassare tasse, cambiare le norme sulla concorrenza per i poveri balneari e tassisti, cancellare il reddito di cittadinanza.

Il centrodestra si restringerà alla destra, Forza Italia prosciugata, vagone di coda trascinata dalla Lega e da Fratelli d’Italia come è successo nei giorni della caduta di Draghi. Il prosciugamento di Silvio Berlusconi avverrà già nelle urne. Ci proveranno Renzi, Calenda, forse Toti (non è ancora chiaro se in formazione unitaria o divisi), con l’aiuto dei fuoriusciti di Forza Italia. Il collasso del centro moderato del centrodestra passa da una reazione silenziosa, spontanea. È questo il peggiore nemico di Meloni e di Salvini, perdere un pezzo di opinione pubblica che finora Berlusconi portava in dote.

Non c’è nulla di scontato nelle urne. Non ci sono più collegi uninominali sicuri dopo la riduzione del numero dei parlamentari. Collegi da 500-600 mila elettori. Collegi enormi, mai sperimentati prima: ogni candidato viene lanciato per la prima volta senza paracadute. Questo provocherà incertezza e lotte fratricide. La divisione tra Salvini e Meloni lascerà pozze di sangue.

La selezione e i calcoli saranno micidiali. Ci sarà pochissimo tempo per pensare e decidere per poi lanciarsi in mare aperto. E chi pensa di avere già vinto farà molto presto i conti con la realtà. È un sogno d’una notte di mezza estate?

Il problema politico che si cela dietro la composizione delle liste riguarda direttamente anche cosa si vuole fare del Pd. Se si vuole cioè salvare il salvabile dinanzi al pericolo-Meloni con un “catenaccio di partito” o se si cerca di portare al governo del Paese la parte più innovativa della società italiana, innanzi tutto candidando il meglio del riformismo e della sinistra italiana, cioè aprendo le liste a personalità esterne in grado di far vivere al meglio i contenuti e le idee della purtroppo breve stagione draghiana.

Ci vuole un grande fatto politico, in questa direzione. Sarebbe cioè un errore mortale se il Pd “appaltasse” l’agenda Draghi ad altre forze, che in ogni caso non mancheranno – da Azione/+Europa a Italia viva – ritenendo che il proprio compito sia quello di rappresentare gli apparati diciamo così più “di sinistra”: sarebbe non solo miope ma contraddittorio con la vocazione maggioritaria che di fatto Letta ha riproposto («Ora pensiamo a noi»), una volta preso atto, con “soli” tre anni di ritardo, che con il killer di Draghi, cioè l’avvocato senza più clienti Giuseppe Conte, non ci si potrà alleare.

Da questo punto di vista, il discorso del segretario è molto importante perché segna una fase nuova nella vita del Partito democratico: magari ancora non tutti l’hanno capita ma finalmente Conte è finito nei panni che avrebbe dovuto rivestire fin dall’inizio: quelli dell’avversario. Solo se il Pd tornerà ad avere lo spirito delle origini può puntare, come dice qualcuno al Nazareno, al 30%, base minima per costruire un’alleanza repubblicana e riformista, senza veti, nel segno della lezione che Mario Draghi ha consegnato al Paese dimettendosi dopo l’assassinio gialloverde.
È l’unico modo per giocare la partita. Sennò si farà testimonianza, travestita da sconfitta. E allora, probabilmente, ciao ciao Pd.