"1978: Giorgio Gaber e i Polli d'allevamento."
Oltre il testo, c’è sempre qualcos’altro. Un rimando, un sentimento, un senso, un interlocutore, più o meno segreto. Nella prosa e nella poesia. Anche in quella poesia che, tornando alle origini storiche, nasce sposata al canto, alla musica. È, in questo caso, la canzone d’autore. Alcuni autori, proclamano, però, totali assenze di senso. Magari barano un po’. Come De Gregori, quando, contestando i suoi contestatori, afferma che non ci sia “niente da capire”. Invece dappertutto, in ogni testo, c’è un sovrappiù da capire. Ci sono alcuni cantautori che usano metafore variamente ermetiche; altri che fanno riferimenti criptici a elementi di koiné culturale. Altri ancora che invece non le mandano a dire. Come Giorgio Gaber, nel finale dell’album Polli d’allevamento, del 1978: uno spettacolo del suo Teatro Canzone. Il brano si intitola Quando è moda è moda, e dichiara esattamente il contrario di ciò che una parte del pubblico di quei tempi avrebbe voluto ascoltare. Infatti agli applausi si accompagnarono i fischi. Già allora Gaber non ne poteva più del conformismo anticonformista, vacuo e consolatorio come un’uniforme. E ciò che alcuni non capivano, non leggevano oltre il testo, era proprio quella disgustata sazietà che Gaber sputava loro addosso. C’è voluto poco perché le bandiere della contestazione rivelassero un volto radical-chic. Perché il capitale, il sistema, fagocita, ingloba e riutilizza molto facilmente ciò che tenta di opporsi, di contrastarlo. “Non so cos’è successo a queste facce, a questa gente: se sia solo un fatto estetico o qualche cosa di più importante. Se sia un mio ripensamento o la mia mancanza di entusiasmo; ma mi sembrano già facce da rotocalchi o da ente del turismo.” È successo che la rivoluzione è diventata moda, e “non fa più male a nessuno”, sfornando protagonisti di una sfilata ai quali si può ben dire: “visti alla distanza non siete poi tanto diversi dai piccolo-borghesi”. Gaber esprime il sentimento che debba esserci un limite alle “liberazioni”, alla trasgressione e alle “altre cazzate”. Rivendica la qualità del dubbio, la propria reale diversità. Proclama di non essere più amico né interlocutore di coloro che si schierano “a prescindere”. Non gli importa di essere chiamato “qualunquista” solo per aver abbracciato l’equilibrio responsabile del buonsenso. Gaber vede il re nudo e invita a riconoscere senza pregiudizi che “quando è merda è merda: non ha importanza la specificazione”. Non era difficile essere profetici: la realtà stava già per diventare molto peggiore, oggi, di quella cui lui rivolgeva i suoi accorati insulti, affrontando a viso aperto le contumelie indignate di quelle che sarebbero diventate moltitudini.