Mi chiedo se ho pianto abbastanza per colmare questo lago asciutto, prosciugato e stramazzato, che mi hai lasciato senza volerlo
Così arrivò il giorno che quella diavolaccia morte si affacciò alla finestra, bussò e poi entrò. Ma tutto era cominciato prima. Prima.
Dal giorno che percorrevamo il viale alberato e i platani risuonavano di vento alle due di notte e noi ridevamo delle paure e ci tuffavamo in quella comoda ovatta che è il legame tra complici. E poi bisbocce e il buonumore delle serate canaglia, e la macchina e lievemente ribelli, con quel modo lieve tuo di esserlo, con quella voglia di saperne ancora, di conoscerne ancora. Di volerne ancora. Fin quando ti fermavi e dicevi non ne voglio più. Sempre lieve, come questa dannata terra, come quella dannata orrenda diavolaccia che bussa alle finestre e poi entra, permesso o non permesso.
E adesso mi chiedo se abbiamo riso abbastanza, o forse se abbiamo cantato abbastanza. E mi chiedo se ho pianto abbastanza per colmare questo lago asciutto, prosciugato e stramazzato, che mi hai lasciato senza volerlo perché so bene, certo che lo so, che avresti voluto lasciare il mare, ai tuoi amatissimi cari, agli amici, a me, e dobbiamo- so che lo vuoi, quanto so che tu lo vuoi -trasformare questo buco nel cuore in un mare, e lo strazio in acqua salata come questa vita, come quella vita tra i viali alberati, mentre il vento ululava e noi ridevamo arditi. Lieve, come quei giorni, come quelle notti.
Perché in verità non era mai notte, neanche se la luna era un pozzo nero, neanche se ero chiuso in casa e tu passavi a portarmi il futuro, e mi rincuoravi e dicevi il futuro amico mio esiste ed è il nostro, è il tuo e di chi lo vuole, chi non vuole si sta a casa, tutto così semplice, tutto così lieve. A pensarci bene ti devo una vita, te la pago in dolore, amico lieve. E sai che mi farei impiccare per riavere la tua voce, e che sfiderei a duello la baldracca che ti ha fregato, ma a lei pare di averti fregato, ma non lo ha fatto, non può farlo perché chi ci frega a noi, che abbiamo disegnato le coste di questa terra triste e insulsa e dannatamente bella come un sole spezzato. Ed infatti ti sono grato, e sono fortunato, non è da tutti, non è per tutti un’amicizia come la nostra, è un privilegio, unico ed esclusivo.
Così non mi resta che correre dietro alle immagini della mente. E ritrovarti subito, nel fumo azzurrino di questa merdosa che brucia qui accanto, e sapere, credere, confidare che mi guardi, ridi e sfotti come uno zio ragioniere, che fa dell’emozione bontà, che sbriciola il mio dolore in una risata, e che se ne infischia del latte alle ginocchia, e mi guardavi e dicevi -sei forte socio – e la voce non tremava anche se non era vero, perché per te lo era, perché per me era vero che i forti eravamo noi, era la nostra amicizia, rara più rara di una bestia feroce nella civiltà, lieve come quell’odore di pane caldo delle quattro di mattina, come quei discorsi sul bene e sul male e sul contrabbando e sulle spogliarelliste, o quel tintinnare di bicchieri pieni di ghiaccio e whiskey, e quella maschera deforme degli ultimi giorni primi dell’Inverno.
Perché Roberto, vecchio mio, te ne sei andato ed è stato Inverno. Ed è stata notte, è stata fame, è stato strazio e digiuno, e rimandare la vita a domani, come a cercare di capire se fosse vero, se questo era davvero accaduto a te a noi al mondo, se un fulmine dannato può durare sei mesi e prenderti e portarti lassù, e se quella bagascia ha poi vinto, ma lo so, oggi lo so che la baldracca non ha vinto socio, perché tu detti e io scrivo e la tastiera non è più disperata, lo sa anche lei che non può vincere nessuno, quando si è così, per tanto tempo, dalle magliettine con le maniche tagliate agli abiti tagliati dei sarti, sempre insieme.
E allora nessuno può vincere, non si passa, non ci frega, socio, non ci frega, non ci ha fregato, ha solo fatto confusione, ha gettato scompiglio sulla bilancia dell’armonia, ma tutto torna, tornano i conti e torni tu, vivo, sorridente e lieve, come eri tu, tutte le volte che ti penso.
Sei ancora qui. Basta poco, una canzone, una parola, uno sguardo, un riflesso lontano.
L’Inverno è finito, me lo sussurri all’orecchio socio, e sei ancora con noi, che ti abbiamo amato.