blowup

...mentre il banchetto speculare tra osservatore ed osservato, creatore e spettatore, in un continuo rimando, tra superfluo ed essenza, va avanti da sempre

 In occasione dei cinquant’anni dalla sua vittoria al Festival di Cannes, Blow-up di Michelangelo Antonioni è stato presentato  in versione restaurata all’ultima edizione della Croisette, e riproposto, nell’ultimo mese, nei cinema italiani. Rivederlo è stata un’occasione per poter riammirare quello che fu all’epoca, ed ancora oggi, un manifesto epistemologico sul concetto di rappresentazione ed immagine, oltre a rivelarsi una sorta di antesignana riflessione teorica sull’arte che arriva attualissima fino ad oggi, dove  la messa a dialogo tra le  diverse forme d’arte è il cuore ontologico dell’arte contemporanea. Resta l’innovazione che il film rappresentò all’epoca nel tradurre per immagini cinematografiche quel suo  irrisolto  interrogarci e sfidarci sul confine tra reale e rappresentazione, su come lo sguardo e le diverse forme d'arte intervengono sul visibile, modificandolo, svelandolo, in un rapporto sinergico e nello stesso tempo conflittuale. Il visibile come aspirazione, l'invisibile come attrazione, il particolare che sfugge quando la distanza sembra annullarsi, il particolare che ritorna quando l'immagine sembra dissolversi in una sorta di fuga, per essere raccolta come una "pallina invisibile" da chi non sa smettere di guardare, e che a sua volta scompare, o forse non (più) visibile, mentre il banchetto speculare tra osservatore ed osservato, creatore e spettatore, in un continuo rimando, tra superfluo ed essenza, va avanti da sempre. Ma soprattutto a restare vivido è il suo, forse, messaggio finale, e cioè che l’immagine non ci permette mai di spogliarla in toto, di eliminare la distanza fino a svelarne i segreti più reconditi, il vago e l’indefinito campeggiano sempre come gli unici “segni” intraducibili, nonostante (come il protagonista, il fotografo Thomas, con la sua lente d’ingrandimento) cerchiamo costantemente di decodificare l’immagine non solo con gli occhi ma anche con il supporto della tecnica. Come anticipato prima, l’altra grande forza del film è quella di aver anticipato tratti peculiari dell’arte contemporanea, e tre scene da questo punto di vista sono particolarmente esplicative. Nella prima, Thomas tenta di ricostruire la storia che si è trovato di fronte la mattina non solo attraverso l’uso delle foto che aveva scattato, ma creando una sorta di narrazione, un racconto, disponendo gli scatti uno accanto all’altro per poi cambiare l’ordine della disposizione ancora una volta. Qui ritroviamo non solo la costante dicotomia/complicità tra storia e racconto, ma il concetto di happening del reale così diffuso nell’arte contemporanea, in cui la narrazione e la messa in scena entrano nel reale e per questo assumono lo statuto di “opera” a prescindere da valutazioni di carattere estetico e creativo. La seconda sequenza è quella in cui Patricia, legata sentimentalmente sia a Thomas che all’amico pittore, guardando una foto che Thomas aveva posto su una parete (come se fosse una cornice in attesa del “quadro” ) dice: ”Sembra uno dei quadri di Bill”, il quale nel suo lavoro vi è un’evidente riferimento all’espressionismo astratto di Pollock. Ecco allora la messa a dialogo, la foto che richiama l’immagine astratta e che diventa quadro da osservare, il tutto all’interno della struttura filmica. Fotografia ,pittura, cinema, diventano un unico ipertesto per scandagliare e/o alterare il reale, e proporsi come nuova espressione artistica. L’ultima sequenza vede Thomas in una sorta di amplesso simulato con le modelle che doveva fotografare, lo sfondo di carta viola del set fotografico diventa il nuovo spazio in cui i corpi dell’artista e dei suoi “personaggi” trasfigurano in qualcosa di unitario all’interno di una nuova topologia del visibile, ”incartati”  in una nuova epifania che diventa altro rispetto all’origine, oltre che un nuovo registro linguistico per  fare arte. Un passaggio, dal corpo nell’arte al Body (Inc)Art, in cui anche il confine tra l’autore e lo spettatore diventa sempre più labile. A questo punto sorge spontanea la domanda, grazie a quello che Blow-Up aveva saputo anticipare, su  come muoverci all’interno di quello che sembra essere diventato un incrocio tra un luna park ed un centro commerciale, cioè l’arte contemporanea, con la sua produzione di installazioni, video, performance ed opere iperconcettuali. Fare come Thomas, prendere il feticcio-chitarra distrutta, scappare e poi gettarlo, perché’ fuori da quello spazio non ha più senso e valore, oppure diventare cacciatori di aura, nonostante Walter Benjamin ne abbia decretato la morte con l’inizio dell’epoca riproducibilità tecnica? Io, durante la visita alla Biennale di Venezia quest’estate, ho fatto altro ed ho indossato i panni di una sorta di Leopold Bloom che girava per la sua Dublino-Padiglioni, immerso nel suo flusso di (in) coscienza: ” Il tuo corpo ha scelto la croce scegliendo i pali della luce con sopra dischi volanti di carta stagnola motori in azione palloncini ripieni di succo di frutta dal giardino circondato da installazioni recinto con insegne umanoidi…”