cartello: lo cogli negli sguardi, nei silenzi, nei piccoli gesti che
trasformano una persona in un’etichetta. Nel mio lavoro di educatore
psichiatrico l’ho visto accadere ovunque: nelle strade, nei posti di lavoro, a
scuola, negli ospedali, perfino nelle famiglie. È come se la società a un
certo punto smettesse di vedere un essere umano e cominciasse a percepire
solo un problema, un rischio, una minaccia. Resta solo un pregiudizio
antico, duro a morire. Il paradosso è amaro: proprio quando la fragilità
chiede ascolto, le barriere diventano più alte. Invisibili, ma pesanti.
Fatte di paure e indifferenza, rendendo chi soffre ancora più solo.
Per me, e per molti operatori del sociale che vivono accanto a queste
persone, sappiamo che dietro ogni volto non c’è un “utente” o un “caso”,
c’è una parte della nostra vita quotidiana. Condividiamo giornate,
difficoltà, piccole conquiste, ricorrenze e anche momenti di gioia inattesa.
Ogni volta che qualcuno viene messo da parte o dimenticato, non
perdiamo solo lui, ma è la comunità intera che si impoverisce, perché ogni
persona è parte di un noi più grande.
Ho deciso di scrivere di queste esperienze perché il silenzio non aiuta.
Raccontarle significa difendere un diritto fondamentale: essere visti e
curati come persone, non come diagnosi o come un peso da isolare.
Significa ricordare che la legge 180 del 1978 ha sancito la pari dignità di
tutti i pazienti, ma che nella pratica quotidiana questa dignità va ancora
difesa, giorno dopo giorno.
Ed è per questo che la recente pubblicazione della bozza del Piano di
Azione Nazionale per la Salute Mentale 2025-2030 mi ha colpito in modo
amaro. Lo attendevamo da tredici anni, con la speranza di una svolta verso
una salute mentale realmente radicata nei diritti, nella prossimità e
nell’umanità. Ma leggendo quelle pagine ho ritrovato troppa distanza dalla
realtà quotidiana delle comunità, troppo spazio a una visione medico-
centrica e poca attenzione al lavoro silenzioso e continuo che si fa sul
territorio. Non basta scrivere di integrazione se poi non si mettono risorse,
formazione e strumenti per garantire che chi ha bisogno venga ascoltato
come persona e non gestito come problema.
Finché una persona con disagio mentale non sarà riconosciuta per ciò che
è, un essere umano con la sua dignità, con i suoi bisogni e con i suoi sogni,
resterà sempre l’ombra dello stigma.
E questa invisibilità la vediamo ogni giorno, nello sguardo che si abbassa
per evitare l’incontro, nella distanza che si crea nei rapporti, nella paura
che allontana invece di avvicinare. È un’invisibilità che pesa come un
silenzio collettivo, che rende chi soffre di disagio mentale più solo e più
fragile.
La domanda, allora, è semplice: quante volte, nella nostra vita, abbiamo
guardato realmente la persona davanti a noi, e quante volte invece abbiamo
visto solo l’etichetta?