Un mio amico, avanti negli anni, mi ha raccontato la storia della sua famiglia, tutti reggini doc, per come l'ha scoperta all’improvviso in questi giorni grazie al coronavirus che avendolo costretto a chiudersi in casa l'ha spinto, per sconfiggere la noia, a rovistare tra vecchie carte di famiglia dove non aveva mai ficcato il naso.
Il mio amico fin da bambino aveva imparato di avere tre zii maschi con suo stesso cognome, i tre fratelli di papà. Quindi suo padre, lui aveva sempre saputo e creduto, faceva parte, prima di sposare la mamma, di una famiglia con quattro figli maschi. Uno dei quattro era un po’ più anziano di papà e di altri due. Il primogenito, classe 1905, poi era arrivato suo padre nel 1909, e poi ancora altri due zii, uno nato nel 1910 e l’altro nel 1911.
Dalle carte è saltato però fuori che il nonno del mio amico aveva avuto con la sua unica moglie ben sette figli maschi. Quindi lui avrebbe dovuto avere sei zii e non tre. Notizia che l'ha fatto balzare dalla sedia perché diversa ed estranea a tutte le narrazioni familiari e parentali non avendogli mai parlato nessuno di tutti quegli zii che all'improvviso balzavano fuori, quasi a chiedergli conto e a rimproverarlo, da quelle carte ingiallite. Fatti i calcoli mancavano all'appello tre zii tutti più anziani di suo padre perché nati prima del 1908.
Il padre del mio amico, nato nel 1909, per quanto il mio amico aveva sempre saputo, era il secondo figlio dei nonni paterni, più anziano degli altri due fratelli, nati nel 1910 e nel 1911 che completavano la famiglia (i quattro moschettieri come lui, ragazzino, li chiamava un po’ fiero e un po’ rispettosamente sfottente).
Dai documenti ora sbucavano altri tre figli, tre fratelli tutti più grandi di papà, di cui il mio amico, m'ha raccontato, non aveva mai sentito parlare. E lui, che pure è un uomo lucido intelligente e colto, ha faticato, ed ha anche sofferto, non poco per ricostruire e capire cosa fosse successo e come fossero andate le cose.
S'è fatto i conti. Suo padre, nato verso la fine del 1909, era stato concepito meno di cento giorni dopo la data più tragica della storia plurimillenaria di Reggio, quel 28 dicembre del 1908 quando alle 5,27 del mattino, mentre quasi tutti erano nel pieno del sonno, la terra impazzì per 37 secondi provocando, tra Reggio, Messina e i loro territori, decine e decine di migliaia di morti. Una pagina terribile perché dopo il crollo e il massacro furiosi di quei 37 secondi, erano arrivate dal mare, se possibile ancor più furiose e incattivite, tre ondate gigantesche e assassine (ora si chiama tsunami), che avevano infierito e ammazzato quanto e forse più di quel che era riuscito a fare il terremoto, annientando migliaia e migliaia dei superstiti della scossa dei 37 secondi che si erano riversati in massa sulla spiaggia nella convinzione, falsa e bugiarda, di mettersi al sicuro in riva al mare perché se fossero arrivate altre scosse avrebbero ballato e tremato per la paura ma almeno non gli sarebbe caduto niente addosso. Invece erano stati schiacciati da una massa micidiale d’acqua assassina e salata.
In quel momento, guardando le carte e le date con angoscia crescente, il mio amico scoprì che suo padre quando si consumò “uno dei quattro o cinque peggiori disastri del XX secolo a livello mondiale” (cfr, John Dickie, Una catastrofe patriottica, Laterza, 2008, pag 6) non era ancora nato. Quel dolore gli era stato, quindi, risparmiato. I suoi nonni, dicevano le carte, avevano in quel momento già quattro figli. Molto probabilmente erano convinti di aver già creato la famiglia che avevano sognato. Quindi, prima conclusione dolorosa, i 37 secondi combinati con l’onda traditora e maledetta, avevano dimezzato la famiglia dei nonni riducendola da sei a tre componenti, ammazzando a lui tre zii.
“Certo – ha commentato il mio amico con una commozione che ho avvertito inedita in lui che è sempre stato gioviale – non è detto che mio padre, e quindi io, fossimo destinati a nascere. M’immagino quel periodo carogna: fame, niente case dove proteggersi, uomini e donne seminudi vaganti per la paura e la follia innescate da un disastro tanto radicale che peggio non si può neanche immaginare. Eppure credo che mio nonno e mia nonna abbiano deciso quasi subito che si sarebbero ripresi i tre figli che il terremoto gli aveva rubato per ingoiarseli. L’anno dopo, 1909, mio padre vide la luce. Poi, uno dietro l’altro, gli altri due miei zii più giovani. Ogni anno un altro bambino. Con coraggio, determinazione e la voglia di riacciuffare la vita. Non riesco neanche a immaginare i sacrifici, le paure, le incertezze che hanno dovuto vincere. Ma hanno vinto loro. Mi ricordo da bambino i Natale e Capodanno: tutti insieme e sereni. Così mi è sempre sembrato. Ma del retroscena non ho mai saputo nulla. Né mio nonno o mio padre o i miei zii, né i miei cugini, né nessun altro ne ha mai parlato”.
Il racconto del mio amico s’è fermato qui. Quando ha ripreso sembrava parlasse in un’altra lingua. “Dicono tutti che col coronavirus abbiamo “’mprascato” di brutto: che non riusciremo a riprenderci, che il virus ci terrà sott’acqua per chissà quanti decenni, che intere generazioni non potranno riprendersi la vita”.
Ha tirato un sospiro e ha concluso: “Io non ci credo”.
*Il mio amico esiste veramente e mi ha veramente raccontato questa storia. Mi è sembrata straordinariamente interessante rispetto al dibattito tra ottimisti e pessimisti sul coronavirus e il nostro futuro. Per questo mi è sembrato utile riproporla ai lettori di Zoomsud. Ho aggiunto qualche dettaglio irrilevante per proteggere l’identità del mio amico che certamente mi perdonerà per aver utilizzato una discussione privata.