MONGIANA. La fabbrica dove i Borboni sterminavano i calabresi

MONGIANA. La fabbrica dove i Borboni sterminavano i calabresi
mongiana   UNO. S’inaugura oggi 24 settembre il Museo della Mongiana. Ha fatto bene il sindaco di quel comune a lavorare per un museo moderno e ad alta capacità mediatica capace di testimoniare la storia drammatica di quel territorio. L’iniziativa è stata sostenuta dalla Regione ed ha trovato buona stampa (ricordo, uno per tutti, l’ampio servizio dei mesi scorsi di Romano Pitaro sul Corriere della Calabria).
Abbiamo bisogno, non soltanto in rapporto all’esercizio della memoria, di ricostruire il più correttamente possibile la nostra storia e le nostre radici per capire cos’è andato storto condannandoci ad essere sempre indietro rispetto allo sviluppo e ai punti alti della scienza e della tecnica dei tanti presenti storici che abbiamo attraversato quasi sempre da ultimi.
Il museo della Mongiana farà opera meritoria se s’impegnerà in un’operazione verità che tolga alibi al nostro presente ricacciando indietro il cascame ideologico delle pulsioni neoborboniche e regressive. Altra faccia, opposta e speculare, della rozzezza della Lega Nord e di apparati ideologici costruiti contro il Mezzogiorno.

DUE. Ed allora diciamolo esplicitamente: le fabbriche della Mongiana non furono l’esempio di una realtà felice e ricca poi cancellata dalla furbizia di Garibaldi e dei piemontesi.

Ma una posizione contro l’altra non vale nulla. Per ragionare servono ricostruzioni storiche fondate su documenti e apparati scientifici, non una memorialistica e presunti ricordi che selezionano tesi in polemica o a sostegno del nostro presente. Non so in quale contesto è collocata la citazione di Placanica (proposta da Pitaro) che riporto: «Dalle Serre il ferro, fucinato e lavorato con produzione fra l'altro di fucili e cannoni per l'esercito, veniva portato alla marina di Pizzo, e di qui avviato per mare ai mercati d'assorbimento...». Noto però che si tratta di un passo descrittivo, avalutativo, non connesso a giudizi di merito. Lo ricordo perché si deve proprio a Placanica, e alle sue capacità straordinarie di storico, la scoperta che le tanto decantate fabbriche borboniche di Mongiana fossero in realtà luoghi di morte, miseria e disperazione tenuti in piedi solo grazie a un meccanismo fondato cinicamente sulla scarsa considerazione della vita di chi ci lavorava e delle popolazioni di quei territori. Vite di migliaia di calabresi insopportabilmente accorciate e devastate da condizioni di lavoro terribili in cambio di salari inferiori al costo di quei tempi della sopravvivenza fisica.

TRE. Ma procediamo con ordine. Sulla Calabria borbonica e le fabbriche delle Serre e di Mongiana si è esercitata a lungo la retorica e la falsificazione delle classi dominanti spodestate e degli stessi Borboni che si preoccuparono di nascondere (ancor prima di perdere il Regno) fondamentali documenti ufficiali, prodotti da loro stessi, perché non giungessero ai contemporanei e ai posteri. Documenti che testimoniavano le condizioni tragiche della Calabria nascondendo anche che le fabbriche delle Serre e di Mongiana erano mattatoi per calabresi poveri dove si produceva in condizioni di terribile arretratezza (anche rispetto a quel tempo storico).
La scoperta del documento fondamentale su quella Calabria, che ha costretto gli storici a rivedere tutti i loro precedenti giudizi, fu proprio di Placanica che riscoprì l’originale e curò (1991) la prima edizione del “Giornale di viaggio in Calabria (1792) seguito dalle relazioni e memorie scritte nell’occasione” (ripubblicato da Rubbettino, a cura  di Luca Addante nel 2008) di Giuseppe Maria Galanti. Galanti raffinato studioso sociale e autorevole personalità del regno borbonico, ultimo erede della grande epopea del Settecento illuminista napoletano, restò legato e fedele ai Borboni per tutta la vita e le sue relazioni sono quindi considerate un documento non pregiudiziale né settario. Fu tra l’altro il primo a utilizzare l’osservazione diretta e non “il sentito dire” usando dei veri e propri questionari per lo studio della realtà proprio durante i tre mesi del suo viaggio calabrese.
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 Nella sua fondamentale Storia della Calabria (Donzelli, 2002) Augusto Placanica, lo storico che ha meglio studiato nel Novecento la nostra regione e le sue radici, a proposito del Diario di viaggio del Galanti, fatto su richiesta e per incarico della “Real segreteria delle finanze” del governo borbonico nel 1792 (il documento serviva per una conoscenza reale delle condizioni della Calabria dopo il “tremuoto”), scrive: “Si tratta del quadro più ampio, acuto, più informato e significativo che un’intelligenza di livello europeo (il Galanti, appunto, ndr) abbia mai lasciato sulla Calabria”.
Subito dopo Placanica riporta due passi di Galanti strettamente connessi. Il primo: “Il popolo per le oppressioni che soffre è men facinoroso di quello che dovrebbe essere” e conclude: “La durata più lunga ordinaria della vita è fino a 70 anni”. E subito dopo: “Ferriere [di Mongiana] […]. La gente addetta a questi lavori ha corta vita: muoiono ordinariamente o ciechi o paralitici circa li 40 anni. Alla Mongiana ci sono fisse 200 persone. Le ferriere hanno soldati di custodia, e si passano al mese ducati 3,50. Per vivere agevolano il contrabbando e agevolano li mastri ferrari della Serra. Colla scarsezza di soldi il Fisco fa due mali: mina li suoi interessi e corrompe la morale de’ popoli”.
Placanica nota nella sua Storia che “le centinaia e centinaia di fogli manoscritti” in cui si “dipanano gli appunti e le riflessioni” del Galanti sono univoci e conclude: “Ormai, sul finire del Settecento, il mito della Calabria felice poteva considerarsi crollato come un castello di carte; solo in alcuni poteva residuare, ma come artificio retorico non più all’altezza dei tempi” (citazioni dalle pagine 298/300).

QUATTRO. E’ curioso che gli artifici retorici già vecchi a fine Settecento siano stati ripresi e rilanciati da suggestioni neoborboniche del terzo millennio le cui pulsioni si sono infittite con l’intensificarsi della crisi italiana e del Mezzogiorno e l’affermarsi del leghismo. Ma la storia non si ripete mai. Non siamo a una riproposizione della vecchia retorica: contrabbandare una situazione in cui il lavoro si mangiava e distruggeva più o meno la metà della vita media dell’epoca (ovviamente, al netto della mortalità infantile) per un’epopea di ricchezza e benessere, e spacciare la realtà della Mongiana come una specie di paradiso perduto o come la Calabria moderna ed evoluta che avremmo potuto avere,  rischia di essere oggi molto più pericoloso che in passato perché lascia immaginare che le difficoltà del Sud siano dovute soprattutto agli altri, ai diversi, ai forestieri, ai cattivi che stanno fuori di noi.

Su queste suggestioni intrise di rancori, negli ultimi anni è nata una non storia della Calabria, una memorialistica da dilettanti del dopolavoro che prescinde interamente dai fatti e dalle necessarie categorie scientifiche per valutarli. Inutilmente storici di alto rigore, penso al calabrese Piero Bevilacqua e alla sua Breve Storia dell’Italia meridionale (Donzelli, 1993), che pure ha molto insistito sulle responsabilità nazionali rispetto alla condizione del Sud e della Calabria, ha avvertito che “sarebbe sicuramente ingiusto, oltre che storicamente infondato, sostenere … che il Nord si industrializzò a spese del Sud (pag 66) per poi concludere: L’”arretratezza del Sud non fu una condizione dell’industrializzazione del Nord”. Giudizi che si snodano in un quadro in cui Bevilacqua non manca certo di ricordare che “le economie industriali si avvantaggiarono non poco del contributo indiretto delle popolazioni meridionali” (pag 67).

CINQUE. Ma torniamo a Mongiana. La chiusura di quelle fabbriche non fu un gesto perfido di Garibaldi, ma neanche il segno di indignazione e rispetto umano verso popolazioni massacrate (non in senso metaforico) da un lavoro condotto in condizioni subumane. Come andò lo ricostruisce un altro importante storico meridionale, Alfredo Capone: “Il settore metallurgico, per contro, mostrava (in Italia, ndr) condizioni di grave arretratezza. La lavorazione del minerale del ferro, estratto in quantità modesta dalle miniere dell’Isola d’Elba, Val D’Aosta, Lombardia e Calabria, consisteva principalmente nella produzione di ghisa all’altoforno con carbone di legna. I principali stabilimenti erano ubicati in Calabria – stabilimenti di Ferdinandea e Mongiana – in Toscana, presso Pistoia, Pietrasanta e in Valdelsa, in Lombardia, nell’alta Valtellina, Valsassina, Val Brembana, Val Sertiana, Val di Scalve…. dopo l’Unità aumenta la tendenza all’importazione della ghisa, realizzandosi – osserva Romeo (lo storico Rosario Romeo, citato da Capone, ndr)- “appieno, insomma, le conseguenze della superiorità dell’industria straniera, in grado di far giungere nei porti italiani il prodotto a prezzi inferiori quasi della metà a quelli praticati da noi” (cfr. A. Capone, Economia e strutture dell’Italia unita, in Storia d’Italia, grandi opere Utet, volume 18, coordinamento scientifico Massimo Salvatori, ristampato in La biblioteca di Repubblica, 2004).

La chiusura di Mongiana fu coeva a quelle di analoghe fabbriche (spesso molto più moderne e meno mortali) sparse nel Centro-Nord d'Italia. Fu decisa quando si scoprì che quelle produzioni erano, oltre che dannose alla salute, ferrivecchi antiquati rispetto a quel presente storico, che producevano con costi doppi rispetto a quelli di altri paesi del mondo. Non chiuse solo Mongiana ma tutte le altre fabbriche simili diffuse nel paese, dalla Calabria alla Val D’Aosta. Del resto, perché mai avremmo dovuto tenere in piedi fabbriche che sterminavano i calabresi per produrre al doppio dei costi correnti dell’epoca?