Entrare in un carcere significa entrare in un luogo e in un posto tutto a sé, dove ci sono regole ben precise e dove il rapporto col mondo esterno é delegato a volte solo ai colloqui saltuari con i parenti. I detenuti avevano letto il libro e mi hanno consegnato domande e osservazioni scritte a mano da loro, su foglietti volanti, a volte in bella scrittura, a volte con correzioni, riletture, cancellature. Un segno di un lavoro fatto sul serio e per davvero.
Ma cosa si coglie dentro una struttura del genere della Calabria e di quel che avviene? L’ultima domanda, delle 18 che mi sono state fatte, ha colto il lato pessimistico: cambia Calabria o campa cavallo che l’erba cresce? L’universo carcerario è, infatti, molto concentrato sui problemi della giustizia, della mafia e dell’antimafia; leggono molto e ovviamente sono assai diretti nella percezione di quello che non va nella soluzione dei loro problemi con l’apparato giudiziario ma sanno alla perfezione quello che accade nella politica, nella società, persino nelle università.
Lì – in quel micro mondo tutto suo – la Calabria appare ancora più nera di quello che in realtà è. E non potrebbe, forse, essere diversamente. Ma alla fine delle due ore e passa di dibattito loro stessi si rendono conto che un cambiamento é possibile, che qualcosa è anche in atto; che non tutto è fermo e immobile. E sapeste quanto è difficile coglierlo là dentro!
Colgono che l’autostrada Salerno-Reggio – ad esempio – i parenti riferiscono loro non è più la stessa ed è più ampia; che il nipote che studia ad Arcavacata gli ha detto che è una bella università, etc etc. Alimentare la speranza è complicato lì dentro (lo è anche fuori, in verità) ma non è forse compito di chi gode del bene primario che è la libertà far sì che non muoia e non si spenga quella fiammella? Sicuramente sì, mi chiedevo durante e dopo quelle due ore. Riflettevo sul ruolo degli intellettuali e degli operatori sociali in genere in realtà difficili e complicate come la Calabria, appunto. O come può essere un carcere, o un ospedale o una scuola, con tutte le differenze del caso.
Sarebbe bello se tutti potessero ascoltare quello che un signore che sconta l’ergastolo mi ha detto l’altra mattina: ‘”Non bisogna parlare con le metafore ma ci vogliono i fatti. Come ha fatto Stefano Caccavari di cui lei parla nel libro. A noi non ci rimane che tenere vivo l’ottimismo del cambiamento e lottare per una sana legalità”. E poi un appello ai giovani: “Non perdetevi nella via dell’illegalità e comunque ci vuole un bel coraggio ad avere molto coraggio”. Parole dette in un microfono da un signore che è in carcere da 27 anni, che non è previsto esca mai (se non mutano le leggi, visto che ha sulle spalle il così detto ergastolo ostativo) e che comunque ci indicano che non è serio alimentare sempre e dovunque il circo politico-mediatico della negatività.