Un professore di Lettere di Scuola Media, cinquanta tre anni, venti cinque di insegnamento. Quasi anonimo nei modi e nel vestiario; molto apprezzato per la sua cultura – è un appassionato cultore del Manzoni – per le lezioni di vita che, con severità quasi d’altri tempi, impartisce agli allievi. Non è sposato e non si conoscono sue avventure amorose: cosa che darebbe adito a qualche pettegolezzo, se non fosse considerato persona di specchiata integrità morale: mai una messa persa, membro attivo della parrocchia, presente a tutti i pellegrinaggi. Iscritto ad associazioni culturali, sovvenziona anche gruppi antimafia. Gli si conosce un solo hobby, viaggiare, e si sa che i suoi genitori, morti troppo presto, gli hanno lasciato delle case: nessuno, quindi, si sorprende delle sue lunghe vacanze.
Quello che tutti ignorano è la sua seconda, e più importante, occupazione: «Sono molto orgoglioso della mia vita. Orgoglioso e felice. Sono un assassino. Un killer. A volte a pagamento, altre volte solo per gusto. Ammazzo persone da più di vent’anni, ma non pensate che sia un giustiziere di quelli in stile Charles Bronson, o che insegua ideali filosofici o che agisca per volontà di potenza, o che sia pazzo e patologicamente deviato. Niente affatto. Sono lucidissimo. Ammazzo perché mi piace. E anche perché ritengo il genere umano un pericolo: un pericolo per la bellezza del mondo e per l’armonia che lo governa. Uccidere è la mia profonda morale, il mio riempimento culturale, la mia soluzione finale. (…) Più che a un Dio canonico, mi sento simile al destino, al fato dell’antica Grecia, alla bilancia del monte Ida. Semino morte e trasformo le vite degli altri. Perché la morte trasforma tutto. In fondo è da sempre che l’uomo anela a farsi Dio. E ci riesce con l’omicidio. Far terminare la vita, cosa c’è di più vicino alla potenza del padreterno? Nulla. Questo è il segreto. A me riesce benissimo.»
Non uccide donne, minorenni e personalità, politiche o meno, la cui scomparsa farebbe troppo rumore e potrebbe portare a scoprirlo. Per il resto, Carneade – il soprannome che si è dato – uccide sia per piacere personale, sia su ordinazione: «Non mi piace affatto la gente che chiama gli omicidi “lavoretti”. È un modo di dire abbastanza ingiurioso per la mia categoria. Chiamare “lavoretto” un omicidio, con una certa superiorità poi, è davvero insultante.»
Agisce da solo, con la complicità, spesso, di Lana, una donna con cui esplora ogni dimensione del sesso, e dello zio Diego, che, grazie a lui, coltiva pomodori e melenzane di alta qualità. Ha superato i 90 morti, quando inizia il racconto, ed è proiettato al raggiungimento del numero pieno, prima di un eventuale “pensione”, in cui godere di quanto è riuscito a realizzare.
È favorito, nella sua attività, dal luogo in cui abita: «Io vivo a Reggio Calabria. Avete capito tutto. Basta la parola, come recitava una vecchia pubblicità. In effetti sono stato fortunato, sono nato nella capitale mondiale della ’ndrangheta, in una città che è un centro di potere universale. Potere oscuro, naturalmente. Una città bellissima, antichissima e perversa. Il crocevia di tutti i traffici oscuri della nazione e di molti dell’intero pianeta. (…) Una città dove i tipi come me sono destinati a fare carriera. E infatti la adoro, la ritengo la migliore, la più gentile, la più vivibile, e non la cambierei con nessun’altra al mondo; sono di parte, convinto e presuntuoso, ma sono certo di non poter essere smentito: Reggio Calabria è la città più bella dell’universo.»
Carneade di Antonio Calabrò, edito da Città del Sole, è il lungo monologo di «un cittadino esemplare. Ammazzo, ma questo lo fanno tutti. Dare la colpa della decadenza in cui viviamo soltanto alle organizzazioni criminali è un colpo di teatro degli illusionisti. La “zona grigia”, quella teorizzata da un tipo scampato ai massacri dei lager nazisti, il territorio intermedio tra l’orrore e la civiltà, ormai si è allargata a dismisura. La Calabria è una “zona grigia” immensa, e anche l’Italia intera ha un colore simile. Io non sono grigio. Sono nero, senza mezze misure. Anche se gli altri mi pensano bianco come un giglio.»
Scrittura nitida e accurata (non per nulla Carneade è un cultore dei Promessi Sposi), per un personaggio grottesco – «Non mi travesto da assassino: mi travesto da persona normale. Anzi, da stronzo normale. Nella mia falsa identità sono la banalità incarnata, con l’eccezione di quando spiego, o cerco di spiegare, Manzoni ai ragazzi.» – che Antonio Calabrò restituisce in tutta la sua feroce, cinica, piatta, monotona, amoralità.
Coprotagonista del libro è la città. Ogni frase che Calabrò le dedica è come una sferzata che la vorrebbe risvegliata a quella “bella e gentile” che sembra (e lui non vorrebbe ma lo pensa), irrimediabilmente dispersa: «Questa città dove abito è un palcoscenico ideale: non è una città, è un teatro permanente, una Hollywood di periferia, una fiera grandiosa di attori e di attrici che si contendono la scena. Tutti la pensano arretrata, ma in realtà è già proiettata al futuro. Il futuro abita qui, a Reggio Calabria, nelle prepotenze stabili, nella divisione accentuata tra deboli e potenti, nell’alleanza al vertice di tutti i poteri che, da altre parti, seguono la loro anarchica volontà di potenza mentre qui, in riva a questo Stretto di mare che è la tavolozza preferita del Pittore Supremo, hanno trovato la loro armonia. Sandrino Manzoni, e questo va a suo vantaggio, ha scritto il suo meraviglioso fumettone senza mai passarci, ma lui era un genio; questa è la città degli Innominati, dei don Rodrigo e dei bravacci impuniti. La città dove Lucia ha ceduto e si aggira per il corso e la via Marina sui suoi tacchi di 12 centimetri, dove Renzo alla fine ha trovato un lavoro alle Poste o in Ferrovia, dove Azzeccagarbugli è un avvocato di grido e siede tra i banchi della politica, dove don Abbondio è cardinale e fra Cristoforo riposa sotto un metro di terra. Non c’è posto migliore per un assassino come me; il lavoro, in questi vent’anni, non è mai mancato, i contatti col resto del mondo degli affari e delle operazioni occulte sono continui, girano montagne di soldi e gli scrupoli sono relegati ai piani bassi della società. Ci sguazziamo, noi assassini, in posti come questo.»
Antonio Calabrò, Carneade, Città del Sole, pp.200, euro 15