I comunisti e i bambini del Sud

I comunisti e i bambini del Sud

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C’è una pagina di storia che il paese non conosce.

È una pagina gloriosa e importante, scritta dai comunisti italiani negli anni successivi alla guerra e ha per protagonisti i bambini di famiglie poverissime del Sud. La storia inizia nel 1947, tra le macerie dei bombardamenti che hanno martoriato Roma e Napoli e raso al suolo Cassino; prosegue fino al 1952, quando la guerra è terminata da molti anni ma i conflitti di classe rendono la vita durissima ai braccianti e ai contadini poveri.

In quell’Italia, che non sa come mettere insieme pane e companatico, cresce una generazione di bambini e bambine meridionali nel cui futuro ci sono fame, malattia, prostituzione. Il Pci capisce il problema e cambia il destino di 80 mila di quei disperati che avevano dai cinque ai dieci anni. Li prende in consegna, li carica sui “treni della felicità” e li fa accogliere da altrettante famiglie dell’Emilia-Romagna, del Mantovano e – nei primi anni Cinquanta – di Ancona.

È un esodo colossale, all’insegna della solidarietà, promosso e diretto da Teresa Noce che riesce a contagiare centinaia, migliaia di sezioni comuniste. Con il passaparola le informazioni giungono alle famiglie che, con uno slancio straordinario, si mettono a disposizione per ospitare da sei mesi a due anni quell’infanzia altrimenti destinata a perdersi.

Quella pagina riscuote oggi un tardivo interesse sulla scia di un bellissimo romanzo di Viola Ardone (Il treno dei bambini, Einaudi) che attraverso il personaggio di Amerigo dà voce agli 80 mila che affrontarono il lungo viaggio. Ma altri pregevoli lavori editoriali, tra il 2009 e il 2011, analizzarono il fenomeno: I treni della felicità (Cartabianca editore), un saggio di Giovanni Rinaldi con prefazione di Miriam Mafai e il film documentario Pasta nera di Alessandro Piva, con rari filmati d’epoca e tante testimonianze. Il tutto mette sufficientemente a fuoco come fu possibile che famiglie di contadini, di artigiani, di operai dell’Alta Italia abbiano aderito ad un progetto apparentemente pazzo e utopico che il Pci (soprattutto le sue donne), l’Udi, l’Anpi, le Camere del lavoro fecero diventare una perfetta macchina dell’accoglienza.

I primi treni partirono da Napoli e Roma in un clima di estrema diffidenza. Le istituzioni e le prefetture erano in piena emergenza e lasciarono fare, le Ferrovie offrirono collaborazione, ma la Chiesa dell’epoca si mise di traverso in ogni modo. Preti, suore, attivisti cattolici avvicinavano le famiglie povere mettendole in guardia del pericolo comunista, le madri soprattutto vennero bombardate dalle fake news di quei tempi: i comunisti mangiano i bambini, i comunisti li mandano in Siberia a lavorare, i comunisti ne fanno saponette, i comunisti gli tagliano le dita.

Carla Belletti è figlia di una coppia di contadini di Sala di Cesenatico che ospitò un bambino di Cassino quando lei non era ancora nata. I suoi le hanno trasmesso un ricordo vivo di quella esperienza che ha raccontato qualche settimana fa alla Coop di Rimini in occasione della proiezione di Pasta nera: “Era un bambino di 7 o 8 anni taciturno che teneva sempre le mani in tasca o chiuse a pugno. All’inizio non mangiava, poi prendeva velocemente il cibo e nascondeva le mani. I miei intuirono che alle mani c’era qualche problema e riuscirono a farselo raccontare piano piano, quando conquistarono la fiducia del bambino: una suora gli aveva detto che i comunisti gli avrebbero tagliato le dita. Mia mamma, che era sì comunista ma andava in chiesa, lo portò alla messa tutte le domeniche. Superato quello scoglio il bambino si ambientò e il suo soggiorno trascorse sereno nella numerosa famiglia dei miei. Non erano ricchi i miei, ma non gli fecero mancare nulla. Lo pulirono, lo vestirono, lo curarono come fosse un figlio, lo mandarono a scuola. La spinta che li mosse era certo politica ma più ancora credo umanitaria e compassionevole secondo la logica che in una famiglia di 10-15 persone il posto e il cibo per uno in più a tavola si trovano sempre”.

Il romanzo di Viola Ardone riassume bene come avvenne quella staffetta umanitaria: le preparazioni a Napoli, i sabotaggi della Chiesa, il lungo viaggio di Amerigo in treno, l’arrivo a Bologna e il trasferimento in corriera a Modena, la scoperta della musica, il ritorno a Napoli e la fuga ancora verso l’Alta Italia per acchiappare tramite la famiglia affidataria le note di un violino e farsi strada nel mondo della musica…

Di taglio scientifico il lavoro del libro I treni della felicità e del film Pasta nera (la pasta nera veniva fuori dalla farina sporca che si otteneva spigolando i chicchi di grano dopo la mietitura). Entrambi ci fanno conoscere anche uno spaccato di Puglia drammatico: a San Severo (Foggia), “paese di braccianti affamati e disperati, senza terra e senza lavoro, come tanti altri paesi della zona, da Minervino a Gravina da Andria ad Altamura” – scrive Miriam Mafai nella prefazione del libro di Rinaldi – il 23 marzo 1950 i braccianti scioperarono e la repressione poliziesca fu feroce: in 180 vennero arrestati e tenuti nel carcere di Lucera per due anni con l’accusa di “Insurrezione armata contro i poteri dello Stato”. Il processo li assolse tutti il 5 aprile 1952, ma nel frattempo i loro figli si ritrovarono soli e di quella solitudine si occuparono le donne comuniste di Ancona guidate da Derna Scandali. Derna è anche il nome che Viola Ardone ha dato, credo non casualmente, alla “mamma” affidataria di Amerigo, il protagonista del suo romanzo.

Proprio da San Severo ad Ancona, sulla linea Adriatica, i treni fecero gli ultimi viaggi solidali inventati da Teresa Noce, quando il Pci e il popolo degli ultimi erano la stessa cosa.

Tra il dicembre del ’45 e i primi giorni del gennaio ’46 si svolse a Roma presso l’aula magna dell’Università il V congresso nazionale del Pci, il primo dopo la guerra. Il tema delle gravi difficoltà di sopravvivenza dei bambini e delle loro famiglie nelle zone più colpite dai bombardamenti venne sollevato da un delegato della federazione di Frosinone, Raoul Silvestri, che descrisse la situazione tragica dei bambini di Cassino in una città distrutta dai bombardamenti. E chiese che si facesse la stessa cosa realizzata per i ragazzi di Milano e di Torino. Non ci volle molto a raccogliere adesioni: i delegati di Pavia, Parma, Mantova, Cervia furono i primi a mettere posti a disposizione. Dopo la prima giornata del congresso, già 965 fanciulli di Cassino e della provincia furono invitati a trasferirsi per qualche tempo in altre zone. Anzi l’iniziativa si allargò, oltre che al Frusinate, alla stessa Roma mentre «da Novara si impegnavano a mandare pacchi di indumenti in Basilicata e in Calabria». Il congresso deliberò anche che 900 offerte di disponibilità fossero destinate ai bambini di Napoli e che una commissione andasse a Cassino per portare soldi e organizzare i viaggi. Lo stesso Togliatti nel discorso di chiusura dei lavori ebbe a dire: «Abbiamo visto con commozione che l’appello lanciato per aiutare i bimbi del Mezzogiorno ha portato ad una gara fra i compagni e le organizzazioni allo scopo di dimostrare a queste vittime innocenti di una politica di tirannide, di violenza e di sventura, che intorno a loro si è raccolta la parte migliore del popolo italiano».

Qualche giorno dopo sull’Unità apparve un articolo di Pietro Ingrao intitolato “Dormitorio Primavalle” che iniziava così: «Quando sono arrivato al giornale, mi sono lavato le mani, ho scosso il cappotto e mi sono a lungo grattato la schiena e la testa… A casa ho una bambina di sette mesi, rotonda come una pesca… Non voglio portare alla mia bambina le piaghe, la febbre, la tosse, la tristezza dei bambini del dormitorio di Primavalle… Si dividono in due gruppi: quelli che vivranno perché hanno vinto e superato le malattie: vi chiedono la cicca della sigaretta, tengono la mano in saccoccia ed il berretto drizzato spavaldamente: sono candidati al mestiere dello “sciuscià”; capitano al dormitorio la sera; non sanno di padre e di madre; sono la riserva e la speranza dell’esercito della delinquenza, delle bande di trafficanti, dei mobilitati per tutti gli usi. Di contro loro, sta la schiera dei patiti e dei malati: vivono attaccati al seno delle madri fino ad una età incredibile, pompano nei polmoni l’aria fradicia del dormitorio, dei gabinetti, del loro piscio: ti guardano nell’immobilità e nel silenzio… A molte miglia da Primavalle, in provincia di Modena, si sta meglio…». 40 bambini del quartiere romano partiranno per 4 mesi, insieme a tanti altri. La conclusione di Ingrao: «Che 300 privati cittadini… aprano spontaneamente la loro casa a bambini sconosciuti… questo non era mai accaduto in Italia».

Nel 1951 la tragica alluvione del Polesine mise in moto di nuovo la macchina organizzativa del Pci e, innanzitutto, dell’Udi. Questa volta i bambini andarono dal Nord, dal Veneto, verso il Centro-Sud. I cattolici, ricorda Pivato, denunciarono “l’incetta” dei bambini da parte della sinistra, accusando i “bolscevichi” di speculare sulle sciagure e di aizzare le popolazioni colpite. La sinistra da un lato accusò di inettitudine il governo nei soccorsi e dall’altro esaltò il governo sovietico che mandava agli alluvionati mezzi agricoli e sementi attraverso le cooperative. L’Unità scrisse che sacerdoti ed esponenti cattolici facevano pressioni per non affidare i ragazzi all’Udi. Maria Antonietta Maciocchi annotò su Noi donne, periodico dell’associazione: «L’opera di provocazione vergognosa è cominciata: i preti, i marescialli, andavano fra i profughi e dicevano loro: “Non andate con i comunisti, vi abbandoneranno nella strada”. “Se andate con loro, finirete nelle case dei senza Dio. Dio vi ha dato questa sciagura, altre se ne aggiungeranno se li seguite”». Sembrano polemiche dei giorni nostri. Si arrivò addirittura a fermare «due autocorriere allestite dall’Udi con a bordo 137 bambini e 20 mamme, partite da Cavarzere e dirette a Roma, bloccate dalle autorità di polizia. I viaggiatori vengono chiusi nell’ospedale degli Alberoni a Venezia e affidati alla Pontificia commissione di assistenza».

Successe anche di peggio in Calabria, nell’ottobre dello stesso anno, circa un mese prima del Polesine, e sempre in seguito a pesanti piogge. A Reggio Calabria la Camera del Lavoro riuscì a radunare circa 400 bambini rimasti senza casa. Venivano da Platì, Mammola, Polistena, Taurianova e da Reggio. Le chiese dei paesi suonavano campane a morto per la partenza di piccoli, la polizia del ministro Scelba bloccò i pullman, molti bambini vennero portati in istituti religiosi, i giornali vicino al governo (cioè quasi tutti) parlarono dell’ospitalità offerta ai piccoli calabresi come di un’azione criminosa: «Le famiglie ospitanti abuserebbero in maniera turpe dell’innocenza dei fanciulli». All’opposto, da sinistra si replicava con accuse di pedofilia al clero, cosa che indignò non poco il mondo cattolico. Si parlò di «bambini rapiti».  Dovette intervenire la Procura della Repubblica che ordinò alla polizia di restituire i bambini. Molti di essi furono accolti a Napoli.

Nel 1950 questi erano i numeri della nostra infanzia: 3 milioni erano senza casa, 700.000 non frequentavano la scuola dell’obbligo, 500.000 erano orfani senza assistenza, 15.000 i piccoli mutilati, 30.000 i minori deferiti ai tribunali addetti, 10.000 erano rinchiusi in istituti di rieducazione.

Fu una delle pagine migliori del Pci. E aiuta meglio di tanti saggi a spiegare la straordinaria e complessa vicenda della più grande tra le aggregazione riformiste conosciute fin qui nella storia d'Italia.