CECEIDE, poesia dialettale d'amore o pornografia?

CECEIDE, poesia dialettale d'amore o pornografia?

ammira

«Genus est omnium meretricum divisum in partes tres:  quarum una, meretricum carnis, juvenes senesque multos delectavit delectatque, alia, meretricum opproprii, minima jurgia gignit saepe, tertia, meretricum cerebri, perniciosissima quia bella seditionesque ampliora a Genesi peperit atque etiam ad Apocalypsim multiplicabit».

Questa definizione della prostituzione, espunta da filologi bacchettoni dal libro X delle Etimologie di Sant'Isidoro di Siviglia, ci è tornata in mente a proposito della poesia dialettale di Vincenzo Ammirà (Monteleone, 1821-1898) e della sua «Ceceide», poema epico unico nel suo genere la cui protagonista è una grandissima prostituta, «Cecia» accorciativo di Vincenza, vissuta tra Tropea e Monteleone (l'odierna Vibo Valentia) nella prima metà dell'Ottocento.

L'autore sembra evocare, forse inconsciamente e forse no perché egli era oltremodo colto e avrebbe ben potuto conoscere l'opera principe del Santo sivigliano, la di lui valutazione positiva del genere «meretrici del corpo»,  innocue sollazzatrici di giovani e vecchi, che risalta nel contrasto con le «meretrices opproprii», puttane sparlatrici nonché generatrici di litigi di poco conto, e, ancor di più, nell'antitesi con la classe delle meretrici cerebrali, disastrosa («perniciosissima») per aver dato luogo e guerre e rivolte di ogni genere con prospettiva di reiterazione fino alla fine del mondo.

Opera controversa, ma assai più bella di altre sullo stesso argomento prodotte da Ammirà e dei suoi epigoni nello stesso periodo, la cui detenzione in forma manoscritta (ma c'era anche una copia del Decamerone tra i reperti sequestrati dalla polizia borbonica) valse all'autore repressioni e condanne prima dell'unità d'Italia e dopo, nonostante avesse combattuto nell'esercito garibaldino, l'esclusione dal concorso per l'insegnamento delle lingue classiche nel liceo della sua città.

Insegretita dunque dall'alone diabolico-pornografico che l'ha accompagnata per oltre un secolo, l'opera principe di Ammirà ha alfine avuto accesso alla carta stampata, miracoli dell'aria nuova introdotta dal mai abbastanza vituperato Sessantotto, nel tornante fine 1975 - inizio 1976. Due edizioni concorrenti a cura di Sharo Gambino e Antonio Piromalli, con discreto corredo di interpretazioni psicanalistiche e sociologiche: «La ribellione erotica è il parallelo dell'impossibile rivolta sociale, diventa mezzo di liberazione dalle sovrastrutture letterarie del sistema tradizionale» (A. Piromalli); « Il diverso della Ceceide è costituito dal codice sessuale , …, che è quello delle classi subalterne di una società arcaica a sfondo contadino» (D. Scafoglio); «Non apologia della prostituzione, quindi, ma opera di esaltazione della carnalità terragna, spesso costretta e repressa, …, e di liberazione da ipocrisie e tabù …» (P. Tuscano); «… aspetto, peculiare, della Ceceide … è la sua sfrenatezza, … il rifiuto totale delle sovrastrutture di carattere artistico  imposte dalla cultura egemone e si pregia e si gloria dell'uso di termini coniati … dal popolo e che una determinata classe ha messo al bando … cercando di sostituirli con 'verba' molto generici ed eufemismi inventati con intenti di sopraffazione culturale se non addirittura (…) di distinzione razziale»(Sharo Gambino).

La «Ceceide» è un poema polimetro e consta di una breve invocazione alla Musa (trenta endecasillabi ripartiti in cinque sestine), di un Testamento (144 endecasillabi in ottava rima) di una Morte con funerale (192 versi in ottave e sestine di ottonari, settenari ed anche senari); nella chiusa si racconta di una commemorazione per  l'Anniversario della morte (128 endecasillabi in ottave).

Saggiamo alcune strofe, almeno una per ogni parte:

Assorvu a chiddhi chi mi currivaru
O dicu megghiu fìciaru lu perri
Doppu chi bona bona mi chiavaru,
Ch'eu di la testa mi tirai li cerri,
Gridandu: Mamma mia, m'ammazzaru!,
Vidi ca sindi vannu, oì non l'afferri!
Pìgghianci li dinari!... a tutti quanti!
Vi benadicu, chimmi siti santi 

Tecnicamente si tratta di una liberazione da inesigibile «obbligatio contra legem» fatta «in limine vitae» davanti al notaio rogitante: un gruppo di giovinastri avevano fatto l'amore con la prostituta e poi, senza pagare, l'avevano persino malmenata senza che nessuno riuscisse a fermarli: Cecia nondimeno li assolve da ogni qualsiasi e futura petizione augurando loro, addirittura, la santità: «Vi benadicu, chi mi siti santi!»      

E Galluppi lu dottuni
Puru avisti ammenzu a tanti,
E ti amau, fu pacciu amanti,
ti chiavau pe ogni puntuni
Cu la so' filosofia
Cecia amata, Cecia mia

La sestina è rilevante per il cliente speciale che Ammirà affibbia alla prostituta: nientedimeno che Pasquale Galluppi, filosofo romantico, creazionista ed antikantiano nato nel 1770, forse coetaneo di Cecia e suo compaesano di Cecia (entrambi erano nati a Tropea), ebbe cattedra a Napoli dove morì nel 1846: «lu dottuni», il grande dotto, avrebbe amato follemente Cecia («…, fu pacciu amanti») «pe ogni puntuni», in ogni angolo o, rectius, in ogni parte del di lei corpo.

ANNIVERSARIO

Oji fa n'annu chi Cecia murìu
Ah ca mi scappa sulu nu suspiru!
E tuttu lu paisi fa minìu,
Tutti quanti di luttu si vestiru.
Previti no restaru a Piscopìu,
Di Zammarò li previti curriru
Di Pizzinnì, di Nau, di Garavati
Pemmu nci fannu gra nsullennitati
Do Japicu cu l'Orbu  di la Vina,
Franciscani, Bruniani, Ccappuccini,
Currìru tutti di prima matina
Finca l'abbati cu li Filippini
Gustiniani cu la vesta fina,
Cappellani, canonici, abbatini,
Ngratis pe lu grandi funerali,
Ca bona ricordàvanu sta tali.

Ad un anno dalla morte della celebre prostituta tutto il Vibonese si mobilitò per ricordarla in modo adeguato; in queste due ottave l'autore fa una specie di catalogo delle presenze di religiosi ai funerali: clero secolare nella prima ottava(in persona dei preti di Piscopio, Zammarò, Pizzinnì, Nao, Garavati) e clero regolare nella seconda: Francescani, Bruniani (certosini da Serra San Bruno), Cappuccini, Filippini, Agostiniani di ogni gerarchia: tutti vanno al rito senza pretendere obolo, dato che conoscevano bene la celebrata («ca bona canuscivanu sta tali»).