La narrazione della Calabria, rubo il bel titolo del libro di un calabrese orgoglioso, Pasquino Crupi, è quella di una “anomalia selvaggia”, un continente irriducibile e pericoloso con cui è meglio non aver nulla a che fare. Di più: la Calabria è il perverso cuore pulsante di un’infezione devastante che s’infiltra ovunque per corrompere altre società incolpevoli e innocenti.
Chi studia i processi conoscitivi sa che la narrazione di una certa realtà non sa, e talvolta non può, distinguersi da essa. Anzi, la realtà tende a coincidere con la sua narrazione grazie al meccanismo della profezia che si autorealizza perché annunciata e/o pronunziata. Così ogni sforzo che s’allontana dall’immagine per avvicinarsi alla realtà è destinato a infrangersi. La Calabria è quindi sempre e soltanto il suo racconto. La vita reale, gli sforzi della comunità, novità e rotture, non riescono mai a scalfire la narrazione e restano privi di peso. Nessuno segue più il cambiamento e la sua fatica. Anche perché tutti si sono consegnati, o meglio “costituiti”, all’Ideal tipo che custodisce e imprigiona il calabrese. L’affermarsi di una concezione antropologica, cioè razzista, del fenomeno mafioso, che è presente nella regione e soprattutto nel Reggino, ha contribuito a rafforzare in modo potente la ‘ndrangheta promossa attore protagonista della storia calabrese.
Una parola terribile definisce il rapporto tra la Calabria e l’Italia: “Contagio”. Segnala la capacità d’infettare un corpo prima sano. Ed è una “colonizzazione speciale” quella che racconta il rapporto della Calabria col resto del mondo: “Un esercito brulicante e operoso invade le economie del mondo”; e si capisce: prima sane e poi corrotte dai calabresi.
E’ così anche per altri luoghi. Ma in Calabria il paradigma è di qualità diversa per solidità. La Palma siciliana di Sciascia, utilizzata non per indicare la capacità espansiva della mafia ma per denunciare la disponibilità del paese a riceverla e utilizzarla, è diventata in Calabria una leva potente che i calabresi, “la vil razza dannata” che infetta tutto ciò che tocca, destreggiano con vigorosa maestrìa. Alla costruzione di questa bolla hanno contribuito fatti reali e arretratezze ancora irrisolte; ma ancor di più narrazioni non sempre innocenti.
Il summit di Montalto, la testa mozzata di Taurianova, il selvaggiume crudele privo di confini dell’Anonima sequestri, battuto e sconfitto dalla testimonianza dolente di Mamma Casella, le primitive faide di mafia, soprattutto reggine, con migliaia di morti ammazzati, sono diventate le uniche categorie per conoscere e leggere la “vera” Calabria.
Il summit di Montalto è il punto di partenza di questa costruzione e forse lo strumento fondamentale che alimenta dicerie fantasiose diventate nel tempo carne e sangue della Calabria narrata. Tutto ebbe, avrebbe avuto, inizio quel 26 ottobre del 1969 del secolo scorso. Allora, nei boschi fitti dell’Aspromonte, territorio di San Luca, alcune centinaia di mafiosi, gli ‘ndranghetisti più autorevoli della regione, decisero di unificare le ‘ndrine di tutti i paesi della Calabria, di mescolare Onorata società e massoneria deviata, creando la Santa, la nuova Supermafia calabrese i cui componenti restano segreti perfino agli altri mafiosi, boss che hanno il diritto perfino di tradire la ‘ndrangheta più bassa o di consegnarla alle forze di polizia, per non rischiare che il loro livello alto venga scalfito o indebolito dallo Stato nemico. Una super‘ndrangheta nuova e Santa che si sarebbe addirittura misurata nel tentativo di affossare la Repubblica democratica e antifascista attraverso un accordo con Valerio Borghese per un colpo di Stato (per motivi misteriosi) non andato in porto.
La fonte di tutto questo? E’ in centinaia di libri, alcuni di notevole successo e tiratura, che ricostruiscono continuamente la narrazione continuamente riavviata da migliaia di articolo e milioni di copie di giornali che continuano a raccontarla.
Di straordinariamente curioso, c’è il fatto che del summit di Montalto si sa tutto ufficialmente. Si conosce perfino nome e identità di chi rivelò alla polizia la notizia del summit. Anche lui arrestato, sparì subito dall’indagine nei giorni successivi al blitz. La sua “spiata”, del resto, non fu giudicata un granché credibile se polizia e carabinieri impegnarono solo poche decine di uomini per fare irruzione nella radura dove erano riuniti oltre un centinaio di cosiddetti “uomini d’onore”.
Tranne il dettaglio dell’informatore, è tutto scritto nelle 315 pagine della prima sentenza su Montalto ormai introvabile o fatta sparire (per le citazioni in questo articolo viene usata l’edizione del 1971 della tipografia: “La voce di Calabria”).
La narrazione racconta che a presiederlo fu Giuseppe Zappia, ‘ndranghetista di mezza tacca capo (forse) di una piccola cosca di una frazioncina di Taurianova che, si sarebbe scoperto dopo il suo omicidio, viveva di estorsioni straccione, decidendole in sedute spiritiche assieme alle proprie figlie.
Ma la narrazione è falsa.
La sentenza racconta l’intero svolgimento del summit, un po’ più di due ore dall’arrivo degli uomini d’onore a Montalto all’irrompere di una quindicina di poliziotti. La sentenza utilizza le vere e proprie confessioni di due partecipanti, raccolte nell’immediatezza dei fatti. Uno dei testimoni, fornaio con figlio laureando; l’altro, con la sorella prossima alle nozze con un funzionario di un provveditorato. Entrambi preoccupati per le conseguenze su figlio e sorella, su laurea e matrimonio, raccontarono tutti i dettagli del summit convinti di poter così alleggerire le proprie responsabilità. Successivamente, ritratteranno tutto. Ma il Tribunale, essendo state raccolte le due confessioni separatamente ed a ridosso dei fatti e coincidendo alla perfezione nel racconto degli avvenimenti, assume i due distinti racconti come prova inoppugnabile.
Dalla sentenza sappiamo che il summit venne organizzato dai Nirta, potente cosca di San Luca. Venne aperto e presieduto da tale Romeo di San Luca, stretto parente dei Nirta. Fu lui a introdurre la riunione proponendo due temi. Il primo, un po’ scandaloso se si tiene conto della cosiddetta illimitata e presunta devozione degli ‘ndranghetisti per la Madonna di Polsi il cui santuario ricade nel territorio di San Luca, con la richiesta di spostare da Polsi il tradizionale raduno annuale della ‘ndrangheta “e ciò al fine di evitare il concentrarsi delle eventuali responsabilità su Giuseppe Nirta, capo della malavita di San Luca” (pag 99). Insomma, i Nirta, tradizione o no, vogliono alleggerire il peso delle forze dell’ordine nel loro territorio, per non rallentare gli affari di famiglia. Zappia interviene per primo a appoggia la proposta. Ma gli interventi successivi lo zittiscono. Nessuno appoggia la proposta. Si registra soltanto l’intervento del fratello di Giuseppe Nirta che sostiene inutilmente la proposta pur precisando che non viene avanzata nell’interesse della sua famiglia e negando “l’esistenza di una famiglia mafiosa facente capo a suo fratello” (99).
Il secondo punto all’ordine del giorno è sulle decisioni da prendere sulla e contro la polizia per la situazione che si sta determinata nel reggino. Infatti, il questore Emilio Santillo, un poliziotto di grande capacità e prestigio che sarà poi tra i più famosi della Repubblica, danneggiava gravemente le cosche imponendo pesanti condizionamenti alla malavita reggina dispensando raffiche di soggiorni obbligati in comuni lontani dalla Calabria. Insomma, bisognava decidere se cominciare a sparare o no contro la polizia in modo che si desse una calmata. Ed su questo punto la reazione dell’assemblea è a dir poco sorprendente. Nessuno vuole che si spari contro le forze dell’ordine. Non mancano gli attacchi a questura e carabinieri, ma ci sono reazioni di segno nettamente opposto e da parte di alcuni “emerge “un giudizio addirittura lusinghiero sul questore che aveva colpito ‘soltanto coloro che avevano sbagliato contro la giustizia’”. (pag 101). Insomma, i poliziotti fanno il loro lavoro.
Ma qui arrivato il dibattito, c’è già stanchezza tra i presenti. La platea non è formata da intellettuali. L’analisi sociologica dei presenti riferisce di barbieri di montagna, muratori, fornai, contadini, macellai. La distrazione inizia a far capolino. Oltre alla discussione centrale ne affiorano altre tra gruppi e gruppetti.
È a questo punto (la polizia sta già lentamente strisciando per terra per chiudere a tenaglia il gruppo) che scoppia una mini rissa. Gli uomini d’onore di San Carlo, minuscola frazione di Condofuri, paesino della jonica reggina, sono spaccati a metà ognuna delle quali dichiara di essere la vera onorata società. Volano gli insulti in pubblico. Appare una pistola. Tutti cercano di calmare tutti. Zappia in quel momento, sta nuovamente parlando proponendo una sorta di unificazione delle “famiglie dell’onorata società” per meglio affrontare l’attacco della polizia. Ma gli eventi, data la rissa, lo tirano da un’altra parte. Fa il paciere tra i compari di San Carlo di Condofuri urlando una frase destinata a diventare il cuore di tutte le ricostruzioni su Montalto:
“Qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta! … si dev’essere tutti uniti, chi vuole stare stà e chi non vuole se ne va!” (pag 27). Sarà questo ritornello, scardinato dal suo contesto, a diventare in futuro la dimostrazione che a Montalto s’è realizzata l’unificazione della malavita calabrese. Una frase che probabilmente, nelle parole concitate di Zappia, sembra voler conciliare l’unità con l’autonomia e l’indipendenza di ogni singola famiglia mafiosa. Nessuno, tra quanti hanno utilizzato Montalto in questa chiave, ha mai tenuto conto, tra l’altro, che a Montalto sono presenti solo e soltanto abitanti della provincia di Reggio. Per non dire della stridente contraddizione, tra chi propone Montalto come levatrice dell’unificazione della ‘ndrangheta, e la circostanza facilmente verificabile che le più feroci guerre di ‘ndrangheta con centinaia e centinaia di morti ammazzati si sono svolte dopo quella data.
Mentre sono ancora in aria le parole di Zappia “Gli agenti si lanciarono al grido ‘Fermi tutti!... Polizia’ del brigadiere Mondo, con le armi in pugno, determinando sbandamento e scompiglio in seno all’assemblea che si disintegrò istantaneamente e i partecipanti si diedero a fuggire in disordine sparando” (pag 17). Feriti di arma da fuoco? Nessuno. Qualche slogatura, ma leggera. Tutti, guardie e mafiosi, si preoccuparono di non esagerare ironizza involontariamente in più punti la sentenza.
La polizia riuscì a catturare sei persone in tutto. Il solito Zappia tra loro. Accanto allo spiazzo del summit restarono inchiodate decine di auto. I “furbissimi” uomini d’onore andarono nelle caserme dei propri paesi per denunciare il furto della propria auto. I carabinieri compilavano il verbale e alla fine li arrestavano per aver partecipato al summit. Così vennero raggranellati i 72 “pericolosi” boss che finirono a processo. Anche l’analisi delle auto non lascia dubbi: quasi tutte utilitarie che dimostravano gli anni. La macchina più importante è una Giulietta Alfa Romeo, che il proprietario portantino ospedaliero, ha comprato di seconda mano. Una scelta dovuta al portabagagli spazioso perché lui svolge una seconda attività da magliaro: vende di casa in casa corredi per giovani donne.
Insomma Montalto non segna il salto di qualità dell’Onorata società, non è l'avvio della struttura criminale più potente d’Europa e forse del mondo. Segna invece la crisi di una vecchia criminalità connessa all’antica società contadina calabrese che in quegli anni si sta disfacendo sempre più rapidamente sotto i colpi di una modernizzazione, sia pur distorta.
Un raffinato scrittore e giornalista calabrese del Secondo Novecento, Sharo Gambino, in un suo libro del 1975, ripubblicato postumo, concludeva: “Trentasei imputati vennero condannati a due anni e mezzo di reclusione di cui due condonati; tre a pene poco superiori ed uno … Zappia ad un anno e tre mesi… Il Tribunale applicando il condono, ordinava la scarcerazione di tutti gli imputati, se non detenuti per altra causa, ad eccezione dello Zappia e di altri due. Così con questa sentenza (che non ha stupito nessuno) si sgonfiava l’operazione antimafia sul Montalto”.
Resta un mistero gigantesco. Come è stato possibile che questa storia tanto modesta, anche dal punto di vista malavitoso, sia stata scambiata e contrabbandata come uno dei momenti di svolta della storia criminale dell’intera Calabria e sia diventata, ancora nelle discussioni e valutazioni dei nostri giorni, il cuore pulsante di una ‘ndrangheta forza egemone tra tutte le criminalità d’Italia e del mondo.
Si tratta di capire come e perché questa bolla dentro cui la Calabria è imprigionata e si muove, senza mai riuscire a spaccarla e restandone prigioniera, s’è formata. E si tratta di comprendere il contributo possente che a questo processo negativo è stato dato e continua ad essere dato dai calabresi. Ma bisognerà anche che la Calabria si renda conto che se non si spezza la spirale a guadagnarci saranno sempre e soltanto quanti il rapporto con questa terra lo mantengono e continuano a mantenerlo solo per lucrare vantaggi sempre e comunque parassitari. Insomma, una diversa narrazione della Calabria sarà possibile solo e soltanto se verranno capite e smontate, con processi reali consapevolmente svolti dai calabresi, le ragioni della narrazione ormai scolpita in un blocco d’acciaio e riassunta nell’immagine dell’Anomalia selvaggia.
*Questo articolo è già stato publicato sul Dubbio del 24 novembre.