“… ricordo ancora la prima volta che l’ho visto, il Pentcho. (…) Non è esatto dire che lo vidi: lo intuii, semmai. Arrancava risalendo la corrente, nel mezzo di una nube di fumo nero, grasso e maleodorante. (…) Una nave di fumo. Ecco cosa sembrava. Mi sorpresi a pensare che, in fondo, non poteva essere altrimenti: perché i sogni di fuga e di salvezza che era destinata a trasportare, non erano altro che questo. Fumo.” Nel maggio del 1940, oltre quattrocento ebrei apolidi provenienti dai paesi del centro Europa (che nel corso del viaggio cresceranno fino a 520), partono da Bratislava su un vecchio e sgangherato battello fluviale con l’obiettivo di arrivare, risalendo il Danubio e affrontando poi il Mar Nero, in Palestina. Pentcho di Antonio Salvati, napoletano di origine e magistrato a Palmi, racconta una vicenda che sembra inventata e, invece, è solo straordinaria: giacché la realtà ha, spesso, molta più inventiva della fantasia.
Ventidue voci diverse narrano, in altrettanti capitoli, ciascuna, la storia di uno dei fuggiaschi, in una concatenazione che consente al lettore di seguire tutto il viaggio, dall’acquisto del battello, alla formazione della “lista” dei partenti, alle vicissitudini di una navigazione, che si pensava di poche settimane e dura cinque mesi solo per risalire il Danubio, tra malattie, infezioni, blocchi e malfunzionamento dei motori, fino al naufragio in un’isoletta greca, al salvataggio da parte del comandante Carlo Orlandi della Marina Militare italiana, all’internamento, all’inizio del 42, nel campo di concentramento di Ferramonti: “La nostre condizioni erano così precarie che appena arrivati a Ferramonti furono gli stessi internati a organizzare una colletta per rifocillarci, per rivestirci. Per ridarci sembianze umane. A noi, ai naufraghi del Pentcho, furono così distribuiti abiti, cibo, dolciumi, scarpe – vecchie, spesso persino spaiate, ma almeno integre – e soprattutto giocattoli. (…) fu come se avessero ricevuto monete d’oro e pietre preziose, tesori inestimabili come quelli narrati nelle fiabe d’Oriente: e non contava nulla se, in quei poveri oggetti, erano chiari e visibili i buchi delle tarme, gli sbreghi nelle imbottiture, le copertine strappate e le pagine mancanti.” Quando, nel settembre del 43, con l’arrivo degli Alleati, il campo di Ferramonti viene aperto, alcuni del Pentcho rimangono in Calabria, altri partono per varie zone d’Europa ed altri ancora si imbarcano verso la Palestina: tutti ormai molto diversi da quando erano partiti da Bratislava: “Quando ti imbarchi su un Pentcho, c’è un prima e un dopo. Per tutti. (…) non c’è uno solo di loro che sia giunto a destinazione assomigliando a quello che era prima di partire.”
Nei ventidue monologhi che costituiscono il libro – un romanzo di racconti, un’epopea che richiama Spoon River per la confessione sincera fino all’osso della propria verità esistenziale – Salvati riveste i nomi veri delle persone coinvolte in questa vicenda con un’invenzione creativa capace di dar loro carne e sangue. Pentcho è una sorta di oratorio civile, con i toni sommessi di chi confessa dolori inenarrabili e verità che denudano e la sobrietà forte di chi narra la Storia che entra nelle singole, piccole vite e, nello stesso tempo, le piccole vite che cercano vie d’uscita alla Storia: con il coraggio più alto che ci sia, quello del fare, del progettare, dell’andare avanti senza speranza.
Romanzo tra i migliori pubblicati in Italia quest’anno, Pentcho, edito da Castelvecchi, ha il merito di parlare anche del presente, con il Mediterraneo attraversato da sgangherati battelli con tanti “rifiuti umani” che cercano “disperatamente” salvezza.
*Pentcho, Antonio Salvati, Castelvecchi, pp. 241, euro 19,50