Il Pd va sciolto per salvare la sinistra e lasciar fiorire un nuovo schieramento che possa competere con le destre. Da quando il direttore del ‘’Domani’’, Stefano Feltri, ha lanciato mesi fa il tema molti intellettuali e politici si sono espressi sulla questione. Tutti concordano che il Pd attuale non funziona: al debutto nel 2008 ha perso con 12 milioni di voti, nel 2022 ha perso con 5,4 milioni. Difficile considerarlo su una traiettoria di sviluppo. Ma che fare?
I prudenti dicono: ma come si fa senza Pd? Cosa resta? Serve certamente un nuovo segretario, magari un nuovo statuto, più democrazia interna, un serio dibattito sulle alleanze e così via... ma non buttiamo tutto. Non mancano poi le espressioni che ormai suscitano reazioni inconsulte in qualunque elettore di sinistra tipo “ripartiamo dai territori”, “ragioniamo sulla nostra identità”. Walter Veltroni, fondatore del Pd, dice che bisogna “tornare alle radici”. Ma quali? Le ha tagliate perfino lui che da anni fa il regista e il commentatore.
Fuori dal Pd, però, c’è una grande energia nella sinistra italiana: c’è un fiorire di movimenti ambientalisti che propongono politiche radicali per costruire una società più equa e sostenibile; c’è un fermento cattolico che si interroga su disuguaglianze e su una guerra che è minaccia atomica alla civiltà; ci sono “lotte di classe” come quella della logistica presidiate solo da chi considera il Pd un avversario, come i sindacati di base. Ci sono i cervelli italiani all’estero che vorrebbero impegnarsi ma trovano dirigenti novecenteschi poco interessati.
E poi il grande dibattito sui diritti, che è il tentativo di affermare una possibilità individuale di autodeterminazione alternativa all’individualismo solitario delle destre. Anche a questo il Pd ha fatto solo promesse minime e non mantenute, dallo ius scholae alla legge Zan. Ma su tale tema Massimo Tigani esprime nel libro che avete tra le mani il suo netto e chiaro pensiero.
Come ha scritto Ignazio Marino sul Domani, la sconfitta del 25 settembre apre in ogni caso “uno squarcio inatteso” di possibilità. Ma per approfittarne, i leader attuali devono farsi dimenticare”. Azione di Carlo Calenda e il Movimento Cinque stelle di Giuseppe Conte già presidiano due estremi di questo spettro, rappresentano l’approccio manageriale e post-ideologico alla politica e la richiesta di assistenza e tutela per i più fragili. Ma non possono essere loro a offrire la sintesi. Il Pd si è contratto al punto da diventare come le Province: con le risorse sufficienti soltanto a prorogare la propria esistenza al di là id ogni necessità, ma non a fare qualcosa di utile.
Era un esperimento, non ha funzionato. Ma il Pd può ancora favorire la nascita di qualcosa di nuovo. Un vuoto generatore di altre formule, altri equilibri, nel quale chi dell’attuale stagione ha ancora voglia, idee e voti possa tornare protagonista sognando di cambiare il paese e non soltanto di avere un altro mandato. Davanti al risultato del 25 settembre, il Partito democratico si trova ad un bivio: può scegliere di restare nella narrazione del bipolarismo che ha contraddistinto questa campagna elettorale, con le destre di Meloni, Salvini e Berlusconi da una parte, e un polo di centrosinistra dall’altro. Oppure può ultimare la sua transizione verso il centro dello schieramento politico, facendo prevalere la sua anima liberale e liberista, portando così l’Italia verso un tripolarismo “alla francese”.
Nel primo caso, il Pd non può transigere dal ricostruire l’alleanza con Giuseppe Conte, che ha saputo intercettare il malcontento “di sinistra” del paese. Nel secondo caso il Pd costruirebbe invece un polo “macronista”, ricucendo con Carlo Calenda e Matteo Renzi. I temi unificanti sarebbero a questo punto l’europeismo, la crescita economica, la difesa dei conti pubblici, e ovviamente i diritti civili. O una cosa, o un’altra. Stare nel mezzo ha prosciugato il l’elettorato del Pd.