Lei distribuisce a noi sedute attorno (siamo tutte donne di cui una all’ottavo mese di gravidanza), una piccola bottiglia d’acqua che teniamo tra le dita. Lei la Dea, scende dal tavolo che spoglia del bianco. Diventa donna, partorisce il contenuto del suo ventre sul legno nudo. È farina. Spetterà alle presenti contribuire all’azione, in quell’insolito spazio scenico. Siamo invitate, una alla volta, a versare l’acqua della bottiglia affidata e, mentre impasta, a raccontare la nostra nascita, se in ospedale o in casa, a dire cosa sappiamo, cosa ci è stato tramandato. Quando l’impasto è pieno e l’ultima donna rimasta ancora senza la parola, consegna la matrice, il lievito madre, l’origine della vita, l’Asuni impasta e racconta e mentre impasta e racconta, mentre le grandi mani rendono liscio l’amalgamo, mentre si affatica e suda come se stesse lei partorendo una vita nuova da consegnare, la pasta di pane cresce, si modella, ci porta dentro storie e si trasforma.
Diventa divinità antiche, pagane, religiose, Madonne nere, diventa corpi di donne, seni, fianchi, braccia, vulve, teste addormentate, ventre aperto e offeso nonostante la sacralità del corpo. Noi attorno siamo testimoni di storie che ci appartengono e appartengono alle nostre madri e alle nostre antenate, fino alle origini.
Matrici è costruito con una tecnica raffinata, un viaggio non solo antropologico, ma anche metaforico e pieno di richiami al gesto. È sì un rito, è certamente una performance, me è teatro in cui i sensi sono coinvolti, in cui gli oggetti sono connotati da forti significati simbolici. È un rito perché questa liturgia laica di cui siamo parti attive, riesce a indurre in noi una trasformazione, una presenza attraverso la partecipazione, un movimento dell’anima attraverso i ricordi e le narrazioni ancestrali, cui neanche la Asuni si sottrae.
È teatro, perché c’è tecnica e costruzione se pur dentro la capacità di improvvisare, tanto più efficace, perché l’attrice performer è centrata, consapevole, riesce a farci ruotare attorno al suo solido asse. È teatro perché la Asuni ci porta in un altrove che i gesti offrono, con storie che ci fanno da specchio, in un rimbalzo continuo tra rito e teatro, tra teatro e rito. Dove rito e teatro appaiono essenziali per ogni ferita, spesso taciuta, da curare narrandola e per quella scintilla che ci riporta ai luoghi della memoria.
Quando questa antica formula sembra essersi compiuta, a ognuna di noi viene offerto un panetto di quell’impasto che si fraziona, perché chi c’era possa continuare la narrazione altrove, possa portare frammenti di questo discorso amoroso plasmato tra le dita. Lo farà come una domanda, un pensiero da risolvere, con la percezione di aver vissuto una magia irripetibile, come sa fare il Teatro dalla potenza verticale, che pure porta in grembo le vite umane, così orizzontali, così fragili e morbide, con dentro l’intimo e spesso taciuto desiderio di trasformazione, come un impasto di farina, di acqua e lievito.
*Matrici. Un rito di Alessandra Asuni, con Alessandra Asuni produzione f.pl. femminile plurale foto Mikhaela Cannizzaro