LA RECENSIONE. IL PICCOLO GABBIANO DI FERRUZZANO

LA RECENSIONE. IL PICCOLO GABBIANO DI FERRUZZANO

(“Se Maometto non va alla montagna…”) Quest’anno sono in ritardo per il mio rituale ‘semestre di letteratura calabrese’, fra gli alberi che ho piantato e gli uccellini che ho adottato. Per fortuna, la novità di questa primavera mi ha raggiunta oltre le Alpi, sotto forma di manoscritto.

Si tratta del quarto romanzo di Ettore Castagna “I gabbiani vengono tutti da Brooklyn”, un libro che è “una carezza in un pugno”: il pugno delle immagini, a cominciare dalla descrizione - cruda, ma anche carica di profonda pietà - della morte del protagonista sulla sedia elettrica; la carezza della scrittura densa ed al contempo fluida, una scrittura che cattura, che ‘arragna’ direttamente!
E così l’ho letto in due giorni, scoprendo la storia di Giuseppe Zangara di Ferruzzano (RC), emigrato negli U.S.A. negli anni Venti del secolo scorso.

Le pagine sono la somma di anni di lavoro certosino su materiali d’archivio, di ricerca sul territorio, di riflessioni dell’Autore. Sembra di vederlo, Castagna, nel ruolo di “curandero”, mentre compie il rito sciamanico che infonde vita in Little Joe, facendogli acquistare la voce che non ebbe durante il suo doloroso cammino, e donandogli finalmente visibilità, dignità, solidarietà umana.
Orfano di madre dall’età di due anni, il piccolo Peppe cresce in un ambiente nel quale la povertà estrema si trasforma in miseria che corrode l’anima. Già all’età di cinque anni viene avviato al duro lavoro dei campi e trattato, da un “padre padrone” peggiore di quello toccato a Gavino Ledda, come un animale selvatico da addomesticare a colpi di bastone. Gli viene vietata la frequenza della scuola ed anche il farsi fare un semplice rattoppo sui pantaloni appare, agli occhi dello snaturato genitore, come un insopportabile atto di superbia - da punire di conseguenza!

Da grande, Giuseppe Zangara emigra nella “Merica Randi”, dove trova lavoro come muratore; qui prova anche a curarsi i persistenti dolori all’addome che lo tormentano. Un medico gli spiega l’inutilità dell’intento, perché avrebbe dovuto mangiare e giocare di più da bambino e lavorare molto di meno, ma Little Joe si ostina nella ricerca di rimedi per la sua malattia che, nel frattempo, ha preso ad attribuire al capitalismo.
Si è avvicinato all’idea anarchica, ma non è interessato a grandi discussioni; per lui è già tutto chiaro: il capitalismo è il suo nemico e Roosevelt lo rappresenta appieno! Così compra una pistola e durante un comizio del presidente in Florida gli spara, mancandolo e ferendo a morte il sindaco di Chicago; per questo viene condannato alla sedia elettrica.

Questo libro è uno di quelli che tolgono la pace - prima a chi scrive e poi ai lettori.

S’indovina perfettamente la passione da archeologo nell’assemblare elementi storici, biografici, antropologici, nel tentativo di rendere unitaria una storia che unitaria non potrà mai essere. La vita di Giuseppe Zangara è andata in frantumi da subito, ed anche se lui ha resistito caparbiamente per anni, non è mai riuscito a raggiungere la serenità e l’equilibrio che avrebbero lenito i suoi dolori allo stomaco e quelli, altrettanto insopportabili, della sua anima. 

Così tante ingiustizie gli hanno avvelenato l’esistenza che, ironia della sorte, Little Joe è stato bene soltanto in prigione. La morte lui l’ha vissuta giorno per giorno, perdendo di continuo pezzi della propria anima, per cui morire non lo preoccupa affatto, tanto che il giorno dell’esecuzione si siede spontaneamente sulla sedia elettrica, iniziando a legarsi da sé le cinghie!

Nella sua foto segnaletica ciò che colpisce immediatamente è lo sguardo fiero ed accusatore allo stesso tempo: gli occhi di Giuseppe Zangara urlano in silenzio ogni sopruso subìto, ogni speranza di riscatto morta sul nascere.

Come De André, che ha immortalato con “Marinella” la giovane prostituta gettata da un cliente nell’Olona, anche Ettore Castagna ha tolto per sempre dall’oblio il piccolo Peppe di Ferruzzano, eleggendolo a rappresentante di tutti i calabresi, i terroni, i peones, gli schiavi che nella propria terra, in Europa e nel mondo hanno svolto, e svolgono ancora, il ruolo delle bestie da soma, sacrificate sull’altare del progresso - e del profitto - altrui.

Esseri umani senza un volto, senza un nome, vite invisibili che Pablo Neruda così ha descritto nei versi finali della lirica “La United Fruit Co.”, contenuta nel suo “Canto General” e mirabilmente musicata da Mikis Theodorakis:  
“Mientras tanto, por los abismos/ azucarados de los puertos/ caían indios sepultados/en el vapor de la mañana:/un cuerpo rueda, una cosa/sin nombre, un número caído,/un racimo de fruta muerta/derramada en el pudridero.”
(Nel frattempo, negli abissi/zuccherati dei porti,/cadevano indios sepolti/
nel vapore del mattino:/un corpo rotola, una cosa/senza nome, un numero caduto,/un grappolo di frutta morta/versata nel marcitoio.)

*Ettore Castagna - “I gabbiani vengono tutti da Brooklyn”, Edizioni Sensibili alle foglie, 256 pagg. 18,00 Euro