“Un Mondo a parte” è un film che, con i gradevoli toni della commedia, racconta la storia di un maestro che insegna nella periferia romana. La frustrazione professionale lo induce a chiedere e a ottenere l’assegnazione provvisoria nella scuola elementare di un paese della montagna abruzzese. Là Michele, così si chiama il maestro, fa rapidamente i conti con le problematiche a lui sconosciute di una piccola comunità che fatica a sopravvivere lontano da realtà geograficamente, socialmente, economicamente più fortunate.
Michele arriva portando nel suo bagaglio libri di Jonathan Safran Foer e di Vito Teti, che alimentano nel suo animo una visione tanto intellettuale quanto romantica del mondo extracittadino, quello rurale e quello della montagna italiana. Michele comprende rapidamente che lo stato delle cose è ben differente da quanto lui immagina, messo di fronte a una sparuta pluriclasse di scuola elementare destinata inevitabilmente alla chiusura a breve termine. La storia ha un lieto fine, ma offre vari e notevoli spunti di riflessione.
A “Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi”, titolo di un noto libro di Jonathan Safran Foer, alla “Restanza”, a sua volta titolo di un importante saggio di Vito Teti, il padre di uno degli alunni di Michele, fornaio del paese, oppone il punto di vista di chi è rimasto, ma spera che i suoi figli fuggano da una prospettiva di isolamento e di mera sopravvivenza, per nulla mitigata dall’amore per i propri luoghi. Che i cittadini raggiungono nella bella stagione per trascorrere fine settimana nella “natura” e inseguire la velleità di una comfort zone nell’idillio della montagna, salvo tornare appena possibile nelle garanzie e nelle comodità della vita urbana. Luoghi che i cittadini frequentano estemporaneamente in autunno soltanto per osservare il foliage e scattare foto da esibire sui social network. Così si esprime il fornaio del paese, e le sue parole, funzionali all’evoluzione della trama, pongono un rilevante problema di fondo, quello della marginalità e dello spopolamento delle aree di montagna, soprattutto appenniniche.
Sul Rapporto Montagne Italia 2017, Rubbettino Editore, si legge che “…La crisi demografica delle aree appenniniche riprende ad accentuarsi in maniera significativa negli anni più recenti che registrano un generale peggioramento del bilancio demografico del Paese. Le aree montane (interne) delle regioni Meridionali sono quelle nelle quali i processi di declino si presentano in misura più accentuata…”. Le medesime aree che presentano la più elevata pericolosità sismica, le medesime aree montane che ricadono nei territori delle regioni che invariabilmente presentano indici economici e di qualità della vita tra i peggiori d’Italia. Aree svantaggiate non solo economicamente, ma anche in termini di servizi essenziali. Aspetti di una “questione montagna” che interessa il Paese, ma vede le Alpi in una condizione di vantaggio, e sul piano demografico e sul piano economico.
E, paradossalmente, i flussi di abitanti di città verso località di montagna, assai cresciuti in epoca post-pandemica, sembrano orientati prevalentemente verso una fruizione meramente turistica, ispirata da spirito ludico e dalla ricerca al contempo del pittoresco e delle comodità di un centro commerciale cittadino. Mentre le comunità che vivono in montagna, soprattutto quelle che ricavano il loro reddito dall’utilizzazione della terra e dalla trasformazione dei suoi prodotti, rimangono sullo sfondo, ridotte ad attori del circo della “natura”.
Quelle comunità e i loro valori devono essere tutelate, devono essere poste in condizione di “restare”, non devono sentirsi ai margini di un mondo che penalizza chi non vive nei grandi centri abitati. Filippo Veltri, acuto osservatore delle nostre realtà, sottolinea in un suo articolo pubblicato sul Quotidiano del Sud il valore della Restanza, decidere di rimanere nella propria terra, non per rassegnazione bensì per proporre ed agire, una posizione “analizzata splendidamente” (come scrive il Vocabolario Treccani) dal Professore Vito Teti. E il Club Alpino Italiano, nelle sue tesi preliminari al 101° Congresso Nazionale, svoltosi a Roma nel Novembre 2023, sottolinea che “…Alpi. Appennini, regioni insulari, la nostra Montagna Italiana, presenta caratteri distintivi che ne creano differenze e quindi ricchezza, ma alla base di tutto vi sono le popolazioni che ancora vi abitano alle quali dobbiamo rivolgerci con proposte credibili che ne valorizzino la funzione di custodi della cultura e del territorio, della cultura dell’aggregazione sociale, del ruolo di gestori e fruitori di quel territorio che mette a disposizione loro e di tutti i cittadini, beni e servizi naturali, della praticità delle soluzioni…”.
La Montagna Italiana, con le lettere maiuscole, ancora (per quanto?) forte delle sue piccole comunità, giustamente gelosa della sua alterità rispetto al modello urbanocentrico della crescita illimitata e della solitudine sociale. La Montagna Italiana con le sue genti, resistenti e restanti. Che noi abitanti di città vediamo come luogo fisico di trattorie e di camminate guidate, ispirate da tendenze del momento e da necessità sociali, anch’esse, di nuovo, meramente cittadine.
Quelle genti che, come sottolinea il fornaio di Rupe, il paese immaginario ove si svolge la storia del maestro Michele, dopo l’estate e l’autunno, esaurito il ruolo di oggetto di svago, rimangono sole per mesi, a subire la mancanza di attenzione di un mondo che vede la montagna come oggetto di diletto e di consumo. Alla fine della storia narrata nel film, Michele decide di restare definitivamente a Rupe, di integrarsi nella comunità che lo ha accolto, dapprima con diffidenza, quindi con fiducia e da ultimo con generosità. Mi piace immaginare un lieto fine per le nostre montagne e per le loro genti, alle quali dovremmo guardare con ammirazione e rispetto.