LA PAROLA LA STORIA. L'Aràtu

LA PAROLA LA STORIA. L'Aràtu

rtr     di GIUSEPPE TRIPODI -

Aràtu, aratro; strumento antichissimo per lavorare la terra che nel corso dei millenni si è evoluto nei sistemi di trazione e nei materiali che lo costituiscono mantenendo sostanzialmente il design di base; il Dizionario di Agricoltura ( Bologna, Edagricole 1996, alla voce) ne elenca circa una cinquantina di tipi.

La parte più importante dell’aratro calabrese, usato nelle nostre campagne fino agli anni sessanta del secolo scorso, era la bure ( a Pistoia esiste una via della Bure Vecchia); il nome deriva dal latino Buris e per Isidoro di Sivigliaest curvamentum aratri, dicutm quasi ßoós oûra , quod sit in similitudinem cauda bovis” (Etimologie, XX, 14.2).

La bure era costituita da pezzo di legno (per lo più di olivo) duro e robusto, la cui sezione aumentava progressivamente dall’alto in basso; la punta bassa e più grossa cui veniva applicato il vomere ( cal. gòmmera) veniva chiamato dai latini Dens-dentis ma anche Dentalia-um; il calabrese ha ritenuto il termine latino (Dentale est aratri pars prima; in quo vomer inducitur quasi dens, Isidoro di Siviglia, ib.), dentàli, e per sineddoche (la parte per il tutto) lo ha esteso a tutta la bure.

La parte superiore del dentàli rimaneva parallela alla terra per venti-trenta cm prima di incurvarsi verso il basso, quella per intenderci cui venivano legate le corde-comando per i buoi e che veniva impugnata dall’aratore per pressare e far penetrare il vomere nella terra, in calabrese veniva denominata manuzza.  

A metà del dentàli veniva aperta una fessura di quattro o cinque X per dieci-dodici centimetri in cui veniva inserito il timone (in calabrese virga),

La virga, oltre che incastrata nel dentàli, veniva legata ad esso mediante la ntigghia, una grossa asta di ferro di cinquanta cm con impanatura sulla sommità per la chiusura; essa legava la parte inferiore del dentali con la virga ad una distanza di poco più di mezzo metro dal loro incastro.

Rohlfs nel suo dizionario, ove stranamente non censisce la voce dentàli e riporta un disegno dell’aratro alquanto superficiale, è preciso nel descrivere la funzione della ntigghia ma erra in ordine al materiale di cui è composta: “profime, …, legno che riunisce il timone e il ceppo dell’aratro e che serve da regolatore (anaticula…, ant. fr. antille).

Nel dentali, poco sotto l’incastro con la virga ed ortogonale da esso, veniva praticato un foro attraverso il quale veniva fatto passare un pezzo di legno di oliva (sburdùni) che fuoriusciva simmetricamente per un mezzo metro dai due lati.

All’estremità dei due lati dello sburdùni venivano applicate le ricchiòle (orecchie sono anche le parti dell’aratro di ferro che servono ad aprire il terreno) che, incastrate all’altra estremità tra il dente ed il vomere, servivano ad aprire la terra.

Tutte le parti dell’aratro, ad eccezione di vomere e ntighhia che erano di ferro e della virga che era in castagno, erano di legno di olivo ben stagionato per resistere alle sollecitazioni meccaniche e funzionali: infatti un anonimo poeta popolare, in una quartina in cui l’aratro era metaforicamente assimilato al sesso dell’uomo, così si rivolgeva ad una ragazza ancora vergine che forse accennava a preferirgli maschi più giovani: “figghiòla li to terri vannu duri / e non stari a spirànza di figghiòli/ nci vonnu òmini cu li brazza duri /l’arati vecchi e li gòmmeri novi.    

Concludiamo indicando un grave refuso di uno dei più titolati dizionari italiani, lo Zanichelli del 1970, che alla voce bure così si esprime: “estremità anteriore dell’aratro che permette l’attacco al giogo o in genere alla forza motrice”.