IL DIBATTITO. Caro Sansonetti, su Napolitano penso che… VARANO

IL DIBATTITO. Caro Sansonetti, su Napolitano penso che… VARANO

prs      di ALDO VARANO - Caro Piero, anche io, come te, conosco da tantissimi anni Giorgio Napolitano. Ho parlato con lui di politica decine di volte e dopo, quando ho iniziato a fare il giornalista, l’ho raccontato o intervistato: alla Camera, da Ministro dell’Interno, al Bottegone e in via dei Serpenti a casa sua. Leggendo il tuo articolo mi sono chiesto come mai fosse così lontano dalle idee che in questo lunghissimo rapporto mi sono fatto io. Alla fine, dopo averti riletto più volte, mi sono convinto che le differenze, forse, non sono tanto sulla sua persona, quanto nello schema in cui tu collochi le divisioni e le rotture nel vecchio Partito comunista di cui entrambi abbiamo fatto parte.

Io non credo che nel Pci le divisioni si siano innestate soprattutto sulla concezione della democrazia al suo interno e nella società italiana ma che il vero nodo sia stato sul ruolo che avrebbe dovuto giocare il riformismo (e soprattutto la questione meridionale) nella storia e nella politica del paese. Anche i rapporti con cattolici o laici vanno collocati su questo sfondo.

Tutti i dirigenti che hanno veramente contato nel Pci, a partire dall’VIII congresso in avanti, non hanno avuto oscillazioni sulla democrazia né, ed è questione di qualità diversa, si sono divisi tra custodi della burocrazia e/o sponsor dell’innovazione. Altra cosa è stato, invece, il loro rapporto col ricordo della rivoluzione russa e il peso dell’Unione sovietica che, in misura maggiore o minore li ha condizionati tutti e nessuno escluso, da Ingrao (che da stalinista chiude gli occhi sulla Rivolta ungherese e scrive sul giornale in cui tu ed io abbiamo lavorato il famoso fondo che giustifica l’aggressione) ad Amendola che, ancora poco prima di morire, fa il tifo per l’Urss sia pure in modo assolutamente staccato dagli altri temi (vedi i suoi interventi al parlamento europeo). E’ sempre difficile andare contro la propria storia e il proprio vissuto e così fu per gran parte del gruppo dirigente nazionale del Pci, fino all’ultimo. In questo quadro Napolitano fu durissimo contro Giolitti che abbandonava il Pci per l’Ungheria (e gli ha chiesto scusa riconoscendo che aveva avuto torto) e Ingrao, sempre per stalinismo, ha alzato per primo la mano approvando l’espulsione dei fondatori del Manifesto che pure a lui (per equivoco?) si erano ispirati.

Insomma, io credo che proporre Napolitano come una delle vestali di una burocrazia (sia pure mite) di un Pci che in realtà faceva, attraverso lui filtrare sopportazione e tolleranza contenendo quindi le contraddizioni, non sta né in cielo né in terra. Ma è solo la mia opinione.

Altro quadro si ha se invece che sul tema della democrazia si fanno i conti col nodo del riformismo vera e propria quesitone drammaticamente irrisolta del Pci e che, in qualche modo, ha portato alla dispersione di gran parte del suo patrimonio bloccando (forse soprattutto) le sue potenzialità.

Napolitano è stato uno dei leader di quella componente che, ispirata e fondata prima di tutto da Amendola, si è nutrita (al di là della componente del comunismo milanese) soprattutto di dirigenti meridionali. Hai mai fatto caso che quelli che sarebbero stati chiamati miglioristi (dispregiativo) erano in gran parte del Sud? Amendola, Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Pio La Torre, Colajanni, Di Vittorio, e Bufalini, romano con alle spalle grande esperienza siciliana e meridionale. Quasi tutti (ti risparmio un lungo elenco di calabresi) con la sola eccezione di rilievo politico del giovane Reichlin, o dei sardi Pintor a Ledda -che però, ancor prima di essere politici, furono giornalisti e intellettuali -, erano nati da Napoli in giù. Di contro mai nessun meridionale ha diretto i metalmeccanici della Cgil, allora cinghia di trasmissione del partito.

Lo scontro divenne drammatico a cavallo del ’68 quando tutta l’ala riformatrice venne isolata e fu piena la vittoria di quelli, con al centro l’ingraismo e la Fiom, che giudicavano il riformismo come uno strumento per addormentare, come si diceva allora, la coscienza rivoluzionaria delle masse. Ingrao non fu la vestale della democrazia dentro il Pci, fu il teorico del “Nuovo modello di sviluppo” che, saltando qualsiasi ipotesi riformista, poneva direttamente il problema del potere della classe operaia in Italia, considerato paese maturo per il grande salto che era stato determinato soprattutto dallo sviluppo industriale del profondo Nord.

Così si arrivò all’autunno caldo e invece di rimettere a posto il paese modernizzandolo dal punto di vista strutturale, partendo dal Mezzogiorno, utilizzando quanto si era accumulato negli straordinari anni Sessanta, sotto la spinta imponente dei metalmeccanici si impose per intero una redistribuzione per la crescita dei salari (realmente bassi) e per affrontare i costi necessari a cooptare (addormentare?) nel sistema la generazione del Sessantotto. Nascono da lì, del resto, i problemi che l’Italia ha ancora oggi, di debito e d'arretratezza soprattutto qui a Sud e qui in Calabria da dove scrivo.

Napolitano fu quindi nel Pci soprattutto un meridionalista e uno sconfitto. Perfino quando l’Urss andò a gambe 48 e il Pci saltò, la componente antiriformista, saldata a quel che restava del centro berlingueriano, pur di rimuovere il “pericoloso” riformismo (ahinoi craxiano, ma quando arrivi tardi deve sedere con chi c’è) optò per il giustizialismo che, scansando il riformismo, avrebbe dovuto consentire la conquista del potere per via giudiziaria (e da lì si origina il nodo irrisolto dei poteri dello Stato con la magistratura). Non è un caso che Occhetto sia finito nel partito di Di Pietro (per poi bisticciarsi) e che Macaluso, invece, tanto per fare un nome, restò inchiodato su posizioni garantiste.

Insomma, non mi pare proprio che Napolitano, che fu parte di quella sconfitta, possa essere annoverato tra i sacerdoti della burocrazia del Pci, né che sia questo il suo luogo nella storia del Pci e del paese o la sua carta d’identità politica.

Le cose della storia, che raramente danno conto a qualcuno né si preoccupano di quel che scrivono professori ed editorialisti, sono poi andate in un altro modo. Cavalcando il giustizialismo e agitando i cappi vinse Berlusconi e non Occhetto o Di Pietro. Ma questa è un’altra pagina dove Napolitano rientra in gioco come alta riserva della Repubblica. E su questo, adeguandomi al tuo schema, non intervengo.

*questo articolo è apparso sul Garantista (fascicolo nazionale) del 15 gennaio