di MARCELLO FURRIOLO -
Ora la Calabria è entrata a pieno titolo e da protagonista nella inquietante e ancora tutta da chiarire vicenda di Tangentopoli. Merito, si fa per dire, del discusso sceneggiato televisivo"1992" e non perché il regista Giuseppe Gagliardi è di origini cosentine. Ma perché la chiave di volta del clamoroso sviluppo dell'inchiesta "Mani pulite", secondo gli autori della fiction, è legata al ruolo dell'on. Giacomo Mancini, già segretario nazionale del Psi, e alla sua famosa deposizione spontanea davanti ai magistrati del pool, Di Pietro e Colombo, attraverso la quale il parlamentare calabrese avrebbe dato la conferma al teorema degli inquirenti milanesi, secondo cui Craxi "non poteva non sapere". Che è il cuore del rito meneghino, estesosi poi in tutt'Italia e che diede corpo, nel bene e nel male, allo tsunami Tangentopoli.
Ovviamente se le cose fossero andate come rappresentate dal regista calabrese, evidentemente in un'opera, che pur ispirata alla realtà è sempre un prodotto di fantasia, l'immagine di Giacomo Mancini ne uscirebbe notevolmente deturpata.
La tesi del film, infatti, è che l'ex segretario e ministro del Psi sarebbe caduto in una trappola spregiudicata tesa dagli inquirenti facendogli paventare un'incriminazione e pur di salvare se stesso avrebbe dato in pasto a Di Pietro Bettino Craxi.
La reazione dei familiari, degli avvocati e degli amici di Mancini non si è fatta attendere, minacciano azioni a tutela dell'immagine dell'illustre uomo politico calabrese, che tanta parte ha avuto nella vita politica nazionale e della nostra regione.
Ma questa vicenda, a ventitré anni dai fatti e anche al di là del ruolo effettivo svolto da Mancini, i cui rapporti con Craxi furono sempre altalenanti e a volte burrascosi, apre scenari sempre più inquietanti e ferite mai rimarginate su una pagina della storia nazionale che ha sconvolto gli assetti politici e istituzionali del Paese.
E rimette in discussione criticamente i rapporti non sempre limpidi tra magistratura, stampa, avvocatura e segmenti trasversali della politica che diedero alimento e fecero alzare le fiamme devastanti di quell'ordalia politico giudiziaria che avrebbe portato all'annientamento della Prima Repubblica, trascinandosi dietro la fine dei partiti tradizionali, Dc e Psi per tutti, e di intere classi dirigenti. Seminando il terrore, la disperazione di tante famiglie, bruciando la vita di tante persone risultate poi, al giudizio sereno di altra parte della magistratura, del tutto estranee ai fatti così brutalmente contestati, attraverso un uso spregiudicato della carcerazione preventiva.
Si tratta di un momento drammatico dell'ultimo decennio del secolo scorso, i cui riflessi negativi si leggono oggi in una democrazia ancora alla ricerca di equilibri garantisti tra poteri e che non ha fatto emergere una classe dirigente in grado di affrontare le complessità dei problemi aggravati da una crisi economica di dimensioni globali.
Fino a quando non si riuscirà a fare una lettura corretta di quelle vicende, sulle cause vere, sui reali interessi che hanno mosso l'azione, in se ineccepibile, di una parte della magistratura che ha strumentalizzato il sentimento più viscerale di una certa parte dell'opinione pubblica, fino a trarne vantaggi personali di tipo elettorale, non si creeranno le condizioni per dare vita a un nuovo modello di società capace di coniugare legalità, correttezza, ma anche diritti della persona e democrazia.
Proprio quei valori per i quali il 25 aprile di 70 anni fa gli italiani seppero mettere in gioco le loro vite per riconquistare giustizia e libertà. Al confronto il 1992 fa segnare un grave passo indietro nel lungo e sofferto percorso verso la piena affermazione del diritto di tutti i cittadini alla verità e alla dignità umana contro ogni forma di sopraffazione e sottomissione.