di GIUSEPPE TRIPODI -
Crivu, dal latino cribrum, crivello, staccio, vaglio (da cui anche lo spagnolo criba e il verbo collegato Cribar, nonché il verbo francese Cribler, tutti riferiti all’azione del crivellare, setacciare, vagliare). Può esserci un collegamento, almeno per la forma, con la parola greca cricos, cerchio, e con il latino circus.
Strumento fondamentale nella cerealicultura col quale originariamente si praticava una separazione del seme buono da quello inutile o andato a male. È fatto di un fondo circolare di diametro variabile, bucherellato o a rete di diversa foggia a seconda dell’uso che se ne deve fare, e di un bordo di legno alto da 15 a 20 centimetri che raramente supera la misura del palmo della mano che lo deve maneggiare.
Una volta riempito del materiale da separare il crivu viene fatto girare con un movimento a spirale delle braccia. I materiali pesanti e più piccoli del seme scivolano verso i fondo e, attraverso i buchi, finiscono per terra: quelli più leggeri e più grandi del seme si raccolgono invece sulla superficie da cui è facile scartarli.
Il verbo calabrese cernìri rimanda sia al latino cerno-ere, dividere il grano dalla paglia,che al greco crino, separo, vaglio, decido, giudico. I contadini calabresi dovevano scartare dal grano, con la cernitura e come da prescrizione evangelica, il loglio (giògghiu) e u carbuni cioè i semi che si erano marciti nelle primavere piovose e che erano neri e più leggeri.
Dopo la cernitura, per evitare che u carbuni residuo finisse macinato ed annerisse la farina rendendola di sapore sgradevole, il grano veniva sottoposto a lavatura. U carbuni galleggiava per via della più leggerezza ed affiorava sull’acqua; veniva così schiumato e il sapore del pane era garantito.
Curioso il verbo catalano che indica l’attività del vagliare, ba-rutellar, e il sostantivo corrispondente ba-rutell, setaccio per la farina (da cui l’italiano buratto), entrambi legati a roda (ruota) e al verbo rodear (ruotare) come l’italiano rotolare. Tutti lemmi che rimandano al movimento rotatorio del crivello che in calabrese è reso dal verbo rotuliari, indicante il mulineggiare delle pagliuzze fatto dal vento ma anche il rimasticare, passando il bolo da un lato all’altro della bocca, di chi non ha denti, o li ha deboli per un cibo duro, e quindi cerca di ammollarlo prima di deglutirlo.
Elenco di tipi di crivu:
a) quello per cereali, con il fondo bucherellato, che serviva sia sull’aia che per preparare i sacchi di grano per il mulino. Bastaju chiamavano le nostre madri quest’ultima attività ( scomparsa assieme al mondo della nostra gioventù) consistente nel setacciare di nuovo il grano immagazzinato dopo la trebbiatura; così lo si puliva definitivamente e lo si collocava in due sacchi di juta da caricare sull’asino per avviarlo al mulino. Le origini della parola sono antichissime: non solo il greco bastàgion, arnese per il trasporto citato da Rohlfs, ma anche bastazo, porto con forza ( da cui bastàsi, scaricatore di porto, peggiorato in bastasùni, vastàsi e vastasùni in sicilianu), e bastegma, fardello, e bastaghè, trasporto; dal greco derivano lo spagnolo bastaje e il catalano bastaix , colui che porta in collo cose pesanti, nonché bastaixar, trasportare cose pesanti.
b) quello che serviva a separare la farina dalla crusca dopo la macinatura: crisàra, dal greco krēséra - as, dal cui diminutivo krēserion deriva il nostro crisarèdda, crisàra con il fondo fatto di rete ancora più sottile con cui veniva setacciata la farina per ricavarne il fiore di essa per fare il pane e i dolci nelle occasioni più importanti: da cui l’espressione pani chiuràtu equivalente al greco di krēseritēs ártos;
c) il dremùni, grande staccio utilizzato durante la trebbiatura; appeso ad un tridente, piantato verticalmente sopra una vecchia scarpa al centro dell’aia e caricato con una miscela di grano, pulime ed altri residui (spighe non sbriciolate, cùcuddu, pietruzze, etc), veniva agitato ritmicamente dal capo famiglia. Dal fondo passavano solo i chicchi di grano che si accumulavano, mondi di qualsiasi impurità, alla base del tridente formando un monte detto barùni. Il dremuniàri concludeva il ciclo della trebbiatura. Per Rohlfs deriva dal greco dèrma - tos perché avrebbe avuto il fondo di pelle; anche Giuseppe Falcone ( Il dialetto romaico della Bovesia, Milano, 1973, p. 420) condivide l’etimologia che, però, risulta incompatibile con il fondo del nostro dremùni che era di acciaio; e non potrebbe essere altrimenti dato che il peso del grano avrebbe reso inutilizzabile uno strumento col fondo di pelle. Si potrebbe ipotizzare una derivazione da qualcuno dei verbi greci (trémō, tromázō, drimússō) che significano genericamente anche tremare o agitare e corrispondono al latino cribri excumo (agito il crivello);
d) c’erra infine u crivu d’a liva (il crivello per le olive), che aveva il fondo fatto con il filo di ferro intrecciato ad un telaio dello stesso materiale disposto a raggiera: la distanza tra un filo e l’altro della trama, di alcuni millimetri, apriva delle fessure attraverso il quale passavano le foglie dell’abbacchiatura lasciando i puliti i preziosi chicchi.
Lavorare con i crivi era considerata cosa faticosa: “ancora è novu lu crivu!” si diceva per persona che cominciava a lavorare con foga senza economizzare le forze in modo dovuto.