di MIMMO GANGEMI
- I pioppi sanno. Essi, gli unici in grado di separare la fantasia dalla realtà sulle tante leggende che aleggiano attorno alla Certosa di San Bruno. Sanno perché hanno visto tutto, molti sono lì da trecento anni, impassibili testimoni di un tempo di sicuro altrove più veloce. I più imponenti e rugosi sono raccolti in un bosco, fitto da ammantare di sera le ore del giorno con un’ombra perenne, e che si fa pensare solida da doversi aprire un varco a forza di braccia per passarci in mezzo. Chiudono il fronte sul lungo viale che sfocia sulla Certosa. Giganti attorno a cui è scorsa la storia. Hanno estratto contorti gemiti legnosi all’impatto con i tanti terremoti transitati impietosi da lì. Il più rovinoso, quello del 1783, il grande flagello, si consumò rapido, in cento secondi, bastevoli tuttavia a lasciare ruderi desolati al posto dell’eremo ch’era stato una delle più imponenti realtà monastiche d’Italia.
La Certosa è in alta collina, sugli ottocento metri, nelle Serre del vibonese ristrette tra l’Aspromonte e la Sila. Fu eretta nel 1091 da Bruno, poi santo, fondatore dell’ordine dei certosini. E consacrata nel 1094 alla presenza di Ruggero I di Calabria. Vi è conservato il cranio del Santo, dentro un busto d’argento, poche altre ossa e reliquie.
Superato il bosco, un’ampia spianata con gradoni muschiati di verde conduce al grande complesso, riedificato a fine ottocento. Al centro, le celle, spartane, non più le capanne di legno e fango abitate dai primi eremiti. Restano un recinto di mura spoglie d’intonaco, con torrioni cilindrici ai lati, antiche macerie normanne mai ricostruite, lì ad ammonire sulla fragilità terrena, ruderi imponenti della chiesa e del chiostro, del priorato, del piano della biblioteca, della sala del Capitolo. Sono scampate alla natura e all’incuria dell’uomo anche le statue seicentesche di san Bruno e di santo Stefano e decorazioni varie, tra cui due altari di marmo policromo.
Per secoli la Certosa è stata meta di quanti si trascinavano carichi troppo gravosi per riuscire a sopportarli tra il frastuono di fuori e cercavano solitudine e meditazione, una vita da eremita dove tacesse il mondo, le sue insidie, dove alleggerire l’anima, disperdere gli affanni, gli scrupoli e i rimorsi, riconciliarsi con Dio. Vite inghiottite dal monastero, passi strascicati sotto un rustico saio chiaro. I pioppi li hanno visti giungere uno a uno e scomparire anonimi nella cittadella, con un nome diverso già appena varcata la soglia, e confinarsi nella solitudine di una cella con l’orticello sul davanti e intenti in occupazioni da sarto, da ciabattino, ad accudire gli animali – vacche, ovini, galline, api – a produrre formaggi, latte, miele, utensili per la campagna, indumenti poveri, calzature.
I pioppi sanno. Li tacciono però i misteri. O forse li rivelano con parole infilate dentro il fruscio delle foglie tremolanti al vento, dentro il canto degli uccelli che nidificano sulle cime alte da bucare le nubi. Ed è l’uomo a non saperle districare. Così, non si ha certezza se vi è giunto Ettore Majorana, nel 1938, con un fardello insopportabile, che gli masticava la coscienza, avendo intuito le terribili conseguenze cui sarebbero sfociati gli esperimenti di Via Panisperna. Lo si sussurrava lì già da prima che Leonardo Sciascia ne scrivesse nel romanzo “La scomparsa di Majorana”, del 1975. Dopo, deflagrò in ogni direzione, come scintille dalla brace viva nel braciere. Senza convincere appieno, non essendoci riscontri. E presto la si immiserì a fantasia di scrittore. Finché Papa Wojtyla, quando nel 1984 visitò la Certosa, non parlò di insigni uomini di scienza che vi si erano accucciati monaci, avvolgendo così le dicerie di nuova verità. Una mezza ammissione poi avallata da un cugino del fisico che ha scritto del ritrovamento di Majorana nel 1939 in un vallone nei pressi di Catanzaro, non lontano dalla Certosa, morto forse di TBC, una malattia su cui allora mantenere il riserbo, perché portava vergogna, e che avrebbe indotto la famiglia, potente di mezzi e di relazioni, a seppellirne anonimi i resti. Sarà vero o bisogna dare credito all’avvistamento di Majorana in Venezuela negli anni ’50? Solo i pioppi potrebbero svelare il mistero. Non intendono però.
Non ha invece riparato nella Certosa Paul Warfield, il militare americano che sganciò la bomba su Hiroshima dall’Enola Gay. Perché di lui si sa la vita che condusse, nel mondo, senza mostrare segni di pentimento, e la morte nel 2007. Lo stesso per Charles W. Sweeney, a cui toccò Nagasaki, un tranquillo cittadino mancato nel 2004. L’equivoco si è generato per la presenza, questa veritiera, di Lennann Leroy, reduce della guerra di Corea, che si era limitato a raccontare di aver visitato Hiroshima e di aver visto le rovine. Siccome in un servizio Rai del 1962 si fece una vaga allusione su lui e sulla bomba, un giornalista ne approfittò per uno scoop, dando per certe le voci che rintanavano nell’eremo lo “sganciatore”. Queste, transitando di bocca in bocca, gonfiarono come l’onda di un mare in burrasca nell’accostarsi alla riva. La stessa onda gonfiò riguardo un militare italiano che si era chiuso monaco e celebrava messa nella cappella: di anno in anno gli crescevano le stellette, era giunto tenente, o giù di lì, vi morì generale di corpo d’armata, solo perché la carriera non la si può scalare oltre.
Vero tuttavia che lungo i secoli furono eremiti nella Certosa anche personaggi autorevoli, nelle arti, nel pensiero, nella scienza. Giungevano da ogni dove, si sperdevano dentro per sempre. Vi ha lasciato pregevole impronta con i suoi quadri un pittore australiano, di origini orientali, David Singh, che lì fu sepolto, da monaco al modo dei monaci, nella nuda terra, adagiato su un tavolato, nella stessa buca dove già s’erano disfatte le ossa di un altro monaco.
I pioppi sanno. Ma continuano ad attraversare indifferenti le stagioni del loro lungo tempo: in autunno offrono uno spettacolo irreale, di soave malinconia, con le foglie tinte dei vividi colori della morte mentre fluttuano leggere nell’aria e vanno a stendere al suolo un tappeto rossastro su cui scricchiolano i passi; d’inverno si offrono imponenti e superbi nella nudità, accerchiati dall’edera che non smette d’aggrapparsi ai tronchi di una perfetta rotondità – per la natura che dev’essersi armata di compasso – e acciaccati dalle rughe dell’età; in primavera si vestono di un verde tenue che odora di vita. Sono allo stremo però. I più vecchi, quelli che per cingerli alla base non bastano le braccia distese e a catena di tre ragazzi, si avviano a morire. Li divora una malattia a cui non si può opporre rimedio: la vecchiaia, un demone terribile che li scarna dentro, ne divora le carni, ne svuota paziente l’anima, finché al vento basta una raffica più arrabbiata per abbatterli.
Muoiono i giganti. E muoiono i monaci – ne sono rimasti appena sei. E la sepoltura è l’unica occasione che consente l’ingresso nella Certosa, ma ai soli parenti maschi del defunto, mai passo, ticchettante o sobrio, di donna ne ha penetrato la sacra intimità.
Presto nell’eremo vuoto non rimarranno che i fantasmi di un lungo millennio.