di ALBERTO GANGEMI -
In queste settimane l’Europa è diventata un campo di attraversamenti. Dalla Siria, dall’Eritrea e dalla Libia sono migliaia ogni giorno le persone in cammino, in fuga dalla guerra. Le immagini che vediamo mostrano un mondo mobile, spaventato ma pieno anche di speranza. Percorrono centinaia di chilometri: tagliando per i campi, per mare, tracciando rotte, sconfinando. Ho l’impressione che fatichiamo a capire il senso di questa mobilità: è un problema di memoria e di corpi. Abbiamo disimparato a camminare – persino noi calabresi – a misurarci con la durata e con la distanza.
Eppure è difficile pensare a una terra più camminata, mobile e attraversata della Calabria. «Simu venuti de tantu luntanu...»: siamo venuti da molto lontano. Nel suo ultimo libro, Terra Inquieta. Per un’antropologia dell’erranza (Rubbettino, 2015), Vito Teti ricorda che con queste parole, spesso, cominciavano i canti dei pellegrini che attraversano la regione per raggiungere i luoghi di culto e della festa della civiltà contadina calabrese. Di «Vie dei Canti», come quelle degli aborigeni australiani, la Calabria, infatti, era fittamente attraversata. Una trama di passaggi, sentieri, percorsi interni che univano centri distanti della regione e mettevano in connessione le comunità, disegnando una geografia densa, vitale, sognante.
Le Vie dei Canti sono una delle numerose forme dell’erranza calabrese di cui Vito Teti costruisce con cura il catalogo. Ne risulta il quadro di una regione precaria, instabile e abituata agli spostamenti. Un pezzo di Sud che, contro un’immagine facile di immobilismo, non ha mai smesso di mettersi in cammino, di praticare il viaggio: viaggi per la terra e per il lavoro; fughe in montagna; andate e ritorni; pellegrinaggi, processioni, sbarchi.
La fotografia della regione è sempre stata necessariamente mossa, sfuocata oppure deserta: il soggetto è sul punto di andare oppure è già partito. L’antropologia calabrese è piena di queste figure movimentate: mendicanti, viandanti, stagionali, strinari, santi in processione, briganti, studenti, rivoluzionari. E migranti. Ma anche chi resta, di fronte all’obiettivo, mostra i segni di un’inquietudine speciale, di un’oscillazione: la traccia di un movimento subito, di una partenza che si trasforma in psicologia e in morfologia. Vale per le persone e vale, come Teti ha mostrato nei suoi lavori precedenti, da Il senso dei luoghi a Pietre di pane, per i paesi.
Nella vita dei calabresi questa «inquietudine da mobilità» ha preso molti nomi: nostalgia, melanconia, precarietà, incompiutezza, utopia, gusto per l’erranza e la scoperta. Dando vita a quella che l’autore, nell’Introduzione al volume, definisce «una storia di linee: ondulate, curve, rette, spezzate. A ciascuna forma corrisponde un capitolo, e a ciascun capitolo un certo modo di dare forma al viaggio, alla mobilità e all’inquietudine. La metafora deve essere però accolta in un duplice senso: la linea è diagramma di un’esperienza, di un processo o di una forma di vita, ed è al contempo una traccia: la prova che c’è stato un passaggio, un gesto significativo di cui è necessario custodire la memoria».
In questa storia, nulla è trascurato. Soprattutto le narrazioni minori, raccolte con pazienza in trent’anni di ricerca etnografica, di scritture, di scatti fotografici e di reportage, di ascolto dei paesi e delle comunità; condensate nel folklore popolare, nei proverbi, nei riti tradizionali osservati a più riprese e diventati segni di una regione post-moderna senza mai essere stata moderna. Ha scritto Roberto Saviano, a proposito di Terra Inquieta: «Ogni libro di Vito Teti è una benedizione. Il suo racconto del Sud, dell'erranza meridionale, è fatto attraverso racconti antropologici: uomini che emigrano sperando nella fortuna americana, donne che ascoltano in sogno San Giorgio che consiglia come scannare il drago». Il racconto comincia dalla terra. Anzi, da sottoterra: dal suo sottosuolo, dall’instabilità idrogeologica del territorio calabrese e dalla mentalità da catastrofe che ha innescato l’inquietudine delle popolazioni espulse dai propri luoghi – spariti, abbandonati o replicati sempre più a valle, in un crescendo di degrado e mancanza di progettualità. Si passa poi ai viaggi circolari della mobile civiltà contadina, quelli reali, fatti «da scuro a scuro» per raggiungere dal paese la campagna e dalla campagna il paese; e quelli simbolici, delle feste e dei riti che rinnovavano la vita facendo partecipare i morti. Una circolarità che si interrompe per sempre, facendosi linea retta, con la fuga in America e l'emigrazione di massa. Infine, gli ultimi decenni, la Calabria e il Mezzogiorno di questi anni, alle prese con lo svuotamento dell’interno, la fine del legame con i paesi doppi nati oltreoceano, la ricerca superficiale e di sponda di una qualche identità, sfociata, troppo spesso, in ideologie neoborboniche, o, peggio, in inaccettabili giustificazioni della ’ndrangheta.
A fianco, per fortuna, ci sono gli esempi di resistenza, i ritorni creativi nei paesi abbandonati e l’invenzione di forme di ospitalità e di integrazione inedite, come succede a Riace. In questa sua necessaria predisposizione al viaggio e alla mobilità, la Calabria inquieta di Teti appare, quasi, un laboratorio dell’esperienza di chi è in fuga e, per proseguire a vivere e a sperare, deve mettersi in cammino, usare strategicamente la propria nostalgia, tornare a prendersi cura dei luoghi.
Dante Maffia, recensendo Terra Inquieta sul Quotidiano, ha scritto: «Vito Teti ci ha dato un romanzo di memoria (non sociologico o politico, anche se la tentazione era forte), uno di quei libri che al primo impatto è quasi impossibile definire, ma che seguendoli nel loro sviluppo poi acquistano una fisionomia riconoscibile con una identità compatta e delineata perfino nei dettagli. […] Non nascondo d’essere rimasto affascinato da come […] abbia saputo coniugare la dovizia di informazioni, di studi, di letture, di indagini a una narrazione che pur restando “cosa”, intesa pasolinianamente, riesce a diventare soffio vitale che si apre verso il futuro».
E di progettare il futuro, di questa regione e del Mediterraneo di cui è il centro, abbiamo un disperato bisogno.
*Vito Teti, Terra inquieta, Rubbettino, 2015, 18 euro.