La scena si svolge su due tombe, bianche e comode come letti matrimoniali. I personaggi rappresentati, una coppia di anziani coniugi e due pompieri, celebrano il tramonto delle proprie esistenze con l’infantilismo incosciente di chi non ha più nulla da perdere. Sfruttano l’esperienza Beckettiana ma dai dialoghi, più che una mancanza di senso dell’esistenza, emerge notevole il rimpianto, che schizza come un retrogusto, a volte amaro a volte dolce, dai dialoghi.
Il non-senso e la malinconia si fondono in una miscela corroborata da umorismo pirandelliano. L’amore, la necessità di una intimità che supera il godimento tenue del sesso per donargli vigore esistenziale, la malinconia struggente per ciò che si è fatto, e il rimpianto, completamente senza speranza, senza tempo davanti, senza illusione alcuna, per ciò che non si è fatto e non si farà mai più, aleggiano sulla scena come una cappa di vetro deformante. Le risate impediscono al senso cupo della morte di irrompere e padroneggiare. Le tombe diventano letti, eterni e comodi letti da dividere in due.
La condivisione dell’esistenza diventa così senso fondante. I due pompieri, probabili innamorati, rivangano le occasioni perdute. La rappresentazione beffarda della loro stessa presenza, smitizzata dall’espediente scenico simbolista di un carrello della spesa corredato da sirena, si presta a molteplici letture. La coppia di anziani coniugi solleva il sipario e rivela lo scheletro di una vita insieme.
Dai baci roventi alle dentiere, dagli amplessi infuocati al pannolone, la parabola, se di parabola si può parlare, trascina l’attenzione degli spettatori con la ripetitività insolente dei dialoghi, l’incessante sorpresa verso ciò che pare scontato; e grazie ad essa scombina il piano logico che ciascuno di noi elabora in merito alla propria vita. La potenza drammatica del teatro trova concretezza piena nella bravura degli attori: Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Gianluca Cesale e Giulia Weber destrutturano la realtà e la ricompongono con la leggerezza scarna di un’opera compiuta, eppure ancora, e per sempre, da completare.
Finisce “Amore”, il teatro rimane al buio e la poesia s’incarna in Teresa Timpano. Nel buio la sua Aura luccica tenue, la forza dei versi di Baudelaire la trasfigura. Non è più attrice: è sibilla, è sciamano, è tramite, è medium. La sua voce scaturisce dal mondo rovente degli astri nascosti. Fiori del male e donne perdute danzano al suono delle parole. La poesia si spande come un polline invisibile e velenoso. Dolce veleno amaro. Recita e declama versi come se sventolasse una bandiera sotto il fuoco nemico. Come se fosse l’ultimo giorno della storia. Innalza e scivola, degrada e riparte.
Una lettura che è una danza furiosa, un peana selvaggio ma raffinato. Baudelaire sul dondolo che succhia ghiaccioli e beve succo di lava fumante. Baudelaire mostruoso con canini affilati e occhi da vampiro. Baudelaire e Joanna, e noi in questo teatro di una città di periferia che improvvisamente viviamo a Parigi e siamo sul promontorio estremo della storia. Sono gli strani scherzi di una recitazione così intensa da perdere ogni artificiosità; è la poesia che diventa viva.
La serata si conclude con il balletto “L’Ame”, prodotto dal Balletto di Calabria Dance Company. Una serata di totale coinvolgimento, di estremo interesse, di autentica cultura, che, come la cultura deve, ha spalancato l’abisso dei dubbi, delle riflessioni, degli interrogativi.
Missione compiuta, ancora una volta, da Scena Nuda e tutto l’entourage.