I tre momenti della vita in cui si può essere presi dalla paura di non farcela da soli (quando non si può lavorare per l’età, quando ci si ammala o quando non si trova lavoro) non sono stati affrontati allo stesso modo dalle forze politiche. Il sistema previdenziale è stato (tutto sommato) ben organizzato, così come quello sanitario, mentre ha sempre difettato la risposta a chi non è in grado di procurarsi un reddito per evitare che la disoccupazione si trasformi in disperazione.
Lo Stato sociale italiano, dal secondo dopoguerra in poi, è stato attento a chi va in pensione e a chi si ammala, ma molto meno a chi non dispone di un guadagno per affrontare i bisogni elementari della sua famiglia. Il reddito di cittadinanza, con tutti i suoi limiti, ha coperto una necessità sempre trascurata nel passato dall’insieme della politica italiana, compresa la sinistra.
In effetti, è prevalsa un’idea “produttivistica” dello Stato sociale, cioè impiegare risorse pubbliche solo per
chi un lavoro già ce l’ha, per chi lo perde o non è in grado di svolgerlo per età, per malattie o per infortuni,
mai per chi il lavoro non lo ha mai avuto e, forse, non lo conoscerà mai. Si è formato così un sistema
pubblico di aiuti in gran parte modellato sulle zone dove il lavoro scandiva la vita delle persone e della
società.
Prevaleva l’idea che la disoccupazione fosse una scelta soggettiva, una vocazione all’ozio e all’indolenza, un rifiuto preconcetto del lavoro come condizione identificativa della propria vita. Il non lavoro era visto come un segno di inferiorità morale e umana e non un momento difficile da affrontare con un sostegno pubblico. Insomma. lo stato sociale è stato modellato sulle esigenze del Centro-Nord, sulla spinta delle forze sociali, politiche e sindacali in gran parte condizionati dalle esigenze della parte produttiva del Paese. Gli “improduttivi” sono stati emarginati dal sistema e considerati dei paria e dei nullafacenti. Lo Stato sociale ha fotografato la situazione produttiva del Paese creando una incredibile sottovalutazione dei senza reddito e dei senza lavoro, in gran parte concentrati nei territori meridionali. Per questi motivi, prima del reddito di cittadinanza, le erogazioni dell’Inps sono state totalmente squilibrate tra Centro-Nord e Sud.
Ma questa è solo una parte della verità. In effetti, per le aree non produttive e per i senza reddito si è
organizzato in alternativa un sistema discrezionale, illegale e spesso controllato da criminali, ma con risorse
pubbliche in gran parte gestite dall’INPS. Si è dato vita, così, a un doppio sistema di assistenza e previdenza:
Stato sociale al Centro-Nord, Stato clientelare al Sud; aiuti e assistenza “dentro la legge” per coloro che
erano parte del mondo del lavoro, tolleranza “extra legge” per coloro che ne erano fuori. La mancanza di
uno strumento di sostegno universalistico alla povertà ha messo in moto mezzi incongrui per rispondere a
bisogni elementari di vita. Il Sud è stato il luogo di queste particolari forme di “reddito di illegalità”. I casi
sono così estesi che ci vorrebbe un libro per raccontarli. Limitiamoci a qualche esempio.
Nel 2014 fu scoperta in Campania una colossale truffa all’Inps. Ad organizzarla imprenditori del settore
delle pulizie, consulenti del lavoro e funzionari dell’Inps. Erano state costituite ex novo 18 aziende che
avevano proceduto a 7000 assunzioni per ottenere dopo un anno di lavoro (non effettuato) un’indennità di
disoccupazione pari al 70 % dello stipendio. In media ogni persona coinvolta ricavava dall’imbroglio
8000/10.000 euro per un danno complessivo di 37 milioni. Lo stesso meccanismo si ripeteva in altre regioni
meridionali e in alcune del Nord a causa dei maggiori sgravi consentiti alle imprese cooperative. In Emilia, in
Toscana, ma anche nel Veneto e in Lombardia. Negli anni precedenti spopolava l’iscrizione nell’albo dei braccianti. Per le donne, soprattutto, era una straordinaria opportunità: se un imprenditore agricolo avesse attestato lo svolgimento di almeno 51 giornate lavorative, si sarebbe avuto diritto a una indennità di maternità che all’epoca era più alta in agricoltura che nel lavoro di fabbrica. Se poi, con l’attestazione di un periodo di (falsa) malattia, si arrivava a 102 giornate di lavoro, le indennità schizzavano ancora più in alto.
Ricordo che all’epoca era questa l’integrazione di reddito più usata senza che nessuna delle future gestanti avesse svolto effettivamente un giorno di lavoro in campagna. E l’invito a iscriversi nelle liste era veicolato da esponenti politici che ne traevano grandi benefici elettorali.
Quanto è costata allo Stato questa integrazione di reddito illegale? Tantissimo. Molti ceti sociali a basso reddito ne avevano un beneficio, certo, ma era il sistema clientelare e illegale a realizzare un sostegno elettorale di massa. C’è stato un periodo storico nel quale i consiglieri comunali più votati erano i medici e i funzionari dell’Inps. Il sistema clientelare al Sud, così come quello criminale, ha funzionato come surrogato di una protezione universale inesistente. Ma a pagare era sempre lo Stato.
Insomma, nel passato la dimensione degli imbrogli per procurarsi un reddito è stata di gran lunga superiore
a quella del reddito di cittadinanza. Con la differenza che nel periodo precedente per avere accesso a quelle
provvidenze (non spettanti) si ricorreva a faccendieri, a politici clientelari e molto spesso a mafiosi e
camorristi. Sul reddito di cittadinanza, invece, non c’è stata intermediazione clientelare o controllo
criminale. E non è una cosa da poco nel Sud. Un sistema universale di integrazione di reddito è mille volte
preferibile al sistema di intermediazione clientelare, discrezionale e illegale. Quando c’è una domanda di
assistenza legittima non soddisfatta per via legale, si mettono in moto circuiti illegali per procurarsela.
Questa è la storia del Mezzogiorno e dell’Italia che bisogna buttarsi alle spalle, a partire da strumenti
adeguati e universali per rispondere ai bisogni elementari di vita.
*Già pubblicato su Repubblica