AUTONOMIA DIFFERENZIATA: Ecco come frantumare un (ancora) grande paese

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: Ecco come frantumare un (ancora) grande paese
Ci sono tre questioni ineludibili quando si parla di “Autonomia differenziata”, cioè dell’eventualità di concedere ulteriori competenze dello Stato centrale alle Regioni con modalità che il ministro Roberto
Calderoli sta concordando unicamente con gli stessi presidenti interessati.

La prima. Si può aprire una nuova fase della storia delle istituzioni in Italia, spostando ulteriormente il baricentro del comando da quelle centrali verso i poteri regionali, senza discutere seriamente su come il sistema regionale ha funzionato durante la gestione della pandemia da Covid?

Infatti, è giudizio ampiamente condiviso dagli studiosi, dagli opinionisti e dalla pubblica opinione che nel periodo 2020/2022 si sono evidenziati in tutta la loro crudezza i macroscopici limiti del regionalismo italiano (al di là della prosopopea efficientista dei loro presidenti, del Nord, del Centro e del Sud) al punto da rendere non rinviabile un’immediata revisione delle competenze attribuite, a partire da quelle in campo sanitario.
È stata proprio la mancanza di coordinamento, l’incrinatura della catena di comando, l’esasperante frammentazione di competenze, lo scontro permanente tra poteri centrali e locali a determinare una “poliarchia” decisionale che ha inciso enormemente sull’efficienza e sulla prontezza della risposta istituzionale, causando danni enormi all’economia e alle vite umane.

Il problema politico al riguardo non consiste nell’assenza di una maggiore “autonomia” ma nel non voler prendere atto che le regioni, immaginate come soluzione di storici problemi della nazione, rappresentano oggi la più forte incrinatura del sentimento nazionale. Esse erano state sbandierate come una possibile soluzione di secolari squilibri territoriali, e hanno invece prodotto una potente accelerazione del divario
tra Centro-Nord e Sud; erano state profetizzate come antidoto al notabilato e al centralismo statuale, ma al contrario hanno dato vita a un nuovo notabilato e a un’originale forma di “centralismo territorializzato”. Si è discusso nei mesi scorsi addirittura di avviare una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione del Covid, eppure si continua a tacere sull’aspetto più macroscopico, cioè l’insuccesso (se non il fallimento) dell’assetto istituzionale vigente basato su poteri enormi alle 
Regioni mentre i Comuni italiani restano afflitti dai loro cronici problemi di scarse risorse e di organici ridotti.

La seconda questione. Una nazione come l’Italia, che ha squilibri territoriali così marcati senza averli mai risolti nel corso della sua storia, si può permettere di incrinare ancora di più il potere statuale lasciando solo ai livelli locali il compito di superarli? Insomma, ci possiamo consentire ulteriori differenziazioni? Le reggerà il Sud? Se si dovesse andare avanti sulla strada che vuole la Lega (con il consenso di ampi settori di altri partiti, compreso il Pd) si corre il rischio di una sanzione definitiva di un particolare discrimine: la disuguaglianza causata dal luogo di nascita o di residenza (secondo la felice espressione di Giovanni Moro). Lo potremmo anche definire come “ius loci” (diritto di territorio) delle Regioni più sviluppate che si aggiungerebbe alla lunga catena delle disuguaglianze in essere nella nostra società.
Andare avanti lungo la strada dell’Autonomia differenziata è come rendere ogni Regione padrona del suo territorio senza legami con i destini nazionali e senza corresponsabilità con i compiti di riduzione dei divari tra i cittadini dello stesso Paese.

La terza questione. Può la conferenza Stato-Regioni assumere nei fatti un potere che non le compete trasformandosi in un luogo di decisioni che spettano al Parlamento? Possono mai un ministro e 20 presidenti di Regioni immaginare di decidere su una materia così spinosa, contrattando tra di loro in uno scambio non chiaro tra poteri ulteriori alle regioni del Centro-Nord e qualche contentino a quelle del Sud? Nel giro di pochi giorni le roboanti dichiarazioni di guerra di alcuni presidenti del Sud si sono trasformate in richiesta di “qualche cosa in più” per la propria regione. Il localismo e il “qualchecosismo” restano alcuni dei mali strutturali della nostra nazione, al Nord come al Sud.
 *già pubblicato su Repubblica