Una volta si diceva che c’è un paese reale e un paese legale. Per dimostrare il forte scarto che c’è tra il quotidiano dei problemi che vivono i cittadini e la rappresentazione che di questi problemi viene riportata nelle sedi politiche e istituzionali dove dovrebbero trovare concreta soluzione. Un vecchio problema chiaramente esasperato dalla complessa conformazione sociale del paese e dalla oggettiva difficoltà a portare a sintesi politica coerente l’azione di governo. Anche se il nostro sistema democratico è basato proprio sul parlamentarismo, in cui confluiscono tutte le rappresentanze, democraticamente elette dei territori e delle diverse sensibilità politiche e ideologiche. Purtroppo con un sistema elettorale bloccato, che premia i cooptati dalle segreterie politiche e la fedeltà al capo rispetto alle qualità personali.
A 75 anni dall’entrata in vigore della Carta Costituzionale non sembra che le distanze tra Paese reale e Paese legale si siano sensibilmente ridotte. E tutto questo a prescindere dal colore delle maggioranze che si sono alternate alla guida dei vari governi. Anzi nel corso dell’ultimo trentennio si ha l’impressione che questo distacco si sia allargato, anche in rapporto all’aumentato ruolo della politica europea elaborata a Bruxelles sulle scelte nazionali, con progressiva perdita di sovranità da parte dei singoli Stati.
Martedì la premier Meloni ha convocato a Montecitorio un incontro con le delegazioni dei partiti di opposizione al Governo di destra per discutere di riforme costituzionali, Presidenzialismo e Autonomia differenziata.
Sembra una buona notizia. In effetti il tema delle riforme è uno di quelli più caldi nell’agenda dettata dall’Europa per il finanziamento del PNRR. Ma è soprattutto in queste occasioni che si avverte maggiormente lo scarto tra quello che pensano i cittadini e quello che percepiscono i governanti. Sarebbe abbastanza semplice dimostrare come nelle aspettative degli italiani certamente il Presidenzialismo voluto dalla Meloni e l’Autonomia differenziata pretesa da Salvini e Zaia non sono certamente tra i primissimi posti delle emergenze della loro vita quotidiana e del futuro dei loro figli. E questo scarto appare ancora più stridente nella polemica politica portata avanti dalle opposizioni, ma spesso alimentata dalla superficialità di alcuni esponenti anche di primissimo piano del Governo, tra Fascismo e Antifascismo. Che appare oggettivamente un contrasto ormai lontano dalle corde vere che alimentano il pensare e l’agire degli italiani e a cui la storia ha dato il suo giudizio irreversibile. Per nulla modificabile da estemporanee manifestazioni folcloristiche di sapore tristemente nostalgico.
Vero è, piuttosto, che il Paese non è riuscito a fare i conti con gli ultimi trent’anni della sua storia recente e la sua classe politica e dirigente non è stata capace di fare un’analisi rigorosa della falsa rivoluzione messa in atto da una parte della magistratura italiana. Che nel 1992 si è fatta strumento violento della volontà di sostituzione della classe politica rappresentata dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista, che evidentemente non erano più funzionali agli interessi di Governi stranieri, che dal dopoguerra in poi hanno esercitato un controllo condizionante della vita politica, economica e sociale italiana.
Finché non si avrà il coraggio di ristabilire la verità sulla torbida stagione di Tangentopoli, da cui hanno avuto origine Seconda e Terza Repubblica, con tutto il loro fardello di inefficienze, antipolitica, populismo e sovranismo, il Paese non riuscirà a superare le frammentazioni e le radicali divisioni che le impediscono di riconoscersi in una idea condivisa di Nazione.
In questo senso si avverte il grande vuoto culturale della mancanza del contributo di un ceto intellettuale, che mai come in questi ultimi anni non è riuscito ad esprimere una visione di paese e disegnare un progetto di futuro e di cambiamento. Basta guardare il ruolo dei mass media, le grandi testate giornalistiche, un tempo dirette dai migliori intellettuali e uomini di cultura o il ruolo della televisione pubblica, oggi terreno di conquista e di predominio correntizio delle maggioranze al potere, per capire quanto l’Italia abbia perso in autorevolezza interna e internazionale. Mentre la società, sia pure in maniera contraddittoria e a strappi, manifesta una grande voglia di cambiamento e di modernizzazione anche del proprio modo di sentire e dei propri comportamenti.
Non è del tutto estraneo a questo processo silente, ma incisivo, che in una fase come quella attuale, le due figure più rappresentative della politica siano due giovani donne, assai diverse, ma che disegnano uno spaccato estremamente interessante del nuovo costume italiano.
Da una parte Giorgia Meloni, espressione forte di una destra dirompente, forgiata nelle piazze e nei luoghi più contrastati e dialettici della vita partitica. A cui si chiede continuamente e maliziosamente di fare i conti con un passato, che non ha vissuto, anziché pretendere di costruire un modello di governo del Paese saldamente radicato nella cultura occidentale e legato ai valori di democrazia, libertà e giustizia sociale. Gelosa della sua vita privata, che rispecchia una concezione della famiglia moderna e coerente con le scelte dei giovani di tutto il mondo.
Dall’altra Elly Schlein, che ha conquistato il PD, il maggiore partito di opposizione, attraverso un percorso anomalo, che ha messo a nudo le grandi difficoltà di questo partito a consolidare il radicamento sociale della sinistra italiana. Ma la giovane Schlein sta affrontando con piglio spregiudicato e privo di complessi soprattutto il suo essere multigender, che rivendica il pieno diritto ad avere una individualità anticonvenzionale esercitando, per esempio, il “power dressing” anche attraverso il supporto di una armocromista. Che non saranno certamente tra le parole d’ordine lanciate da Antonio Gramsci, né aiutano a capire quale sarà il progetto di Partito a cui guarda la neo segretaria del PD. Ma sicuramente hanno fatto di Elly Schlein la vera alternativa riconoscibile, non solo per le sue gradevoli e colorate giacche, nei confronti di una assai risoluta Giorgia Meloni.
Una competizione, per la verità, che ad oggi non appassiona il paese reale più dell’incoronazione di Carlo III d’Inghilterra o dello scudetto al Napoli. Che, invece, è diventato un comodo diversivo per alcuni Sindaci calabresi. Ma questa è un’altra storia.