la dismisura nell’offesa.
Una specie di tramonto bipartisan della vergogna. Quasi a volere plasticamente dimostrare quali sono i pericoli di un’Italia futura nel concedere più poteri al presidente del Consiglio e più poteri alle regioni. E se Michele Ainis me lo permette, l’insultocrazia non è che un estrinsecarsi della “capocrazia”, l’efficace espressione che egli ha usato come interpretazione di questa fase politica nella quale tra le prerogative dei capi (di partito e di governo) sembra essere ampiamente contemplata la libertà di offendere, di ridicolizzare gli avversari, di umiliarli, riducendoli a cose, animali, oggetti fecali, a oltraggiarli attraverso i loro presunti difetti fisici. Non si è capi se non si è brutali e capaci di dileggiare, se non si è disposti a un livello quotidiano di trivialità in cui però il coraggio si confonde con la vigliaccheria. Insomma, nell’epoca della capocrazia l’offesa sembra essere una imitazione codarda del coraggio. Chi offende è un vigliacco coraggioso, un colto volgare, un raffinato plebeo, un esteta dell’ingiuria. Come se venisse incorporato nel potere dei nostri tempi la libertà di degradare l’avversario, ferirlo permanentemente, di eliminarlo con il peso delle parole che diventano pietre di scurrilità. Perciò Meloni e De Luca dovrebbero riconoscere il loro debito al capo della scurrilità raffinata, dell’offesa creativa, cioè a Vittorio Sgarbi. Insieme potrebbero dare vita al Partito della libera ingiuria (nuovo PLI) che avrebbe un grande seguito nell’Italia di oggi.
Il trionfo del liberalismo dei nostri tempi non può non riguardare anche la libertà di seguire i propri istinti. Ne parla Filippo Domaneschi nel libro Insultare gli altri in cui ricorda come sia tipico dell’infanzia appellare i coetanei per le loro caratteristiche fisiche (cicciona, chiattona, quattrocchi, ecc.), cosa in cui ad esempio si è distinto in tutta la sua vita politica Vincenzo De Luca. Oppure di un’eterna goliardia in cui scherzare pesantemente è il modo di tenere insieme il gruppo di cui si fa parte, dal quale di solito emerge come capo colui che diventa il più crudele negli scherzi o il più ardimentoso nel dileggio, perché dicono gli esperti “il cervello sembra gestire l’insulto proprio come un ceffone o un pugno”. In fondo se la risposta di Meloni a De Luca ha anche il significato di ritorsione, di vendetta a lungo studiata, non potevano che essere gli “amichetti” di Atreju ad averla organizzata. E se nel passato le parole
sconce erano un marcatore linguistico delle classi sociali non acculturate e non benestanti, attraverso il quale si manifestava pubblicamente il rancore sociale e l’insoddisfazione per la propria condizione di vita, oggi diventano addirittura linguaggio delle istituzioni, e quando chi ci governa si esprime come noi quando siamo arrabbiati con il mondo, ciò vuol dire che ci rassomiglia e quindi esprime il nostro stesso sentire. Possiamo definirlo, a ragione, turpiloquio populista.
La Meloni, accortasi che qualcosa era andato storto nella sua performance anti-deluchiana ha virato verso una interpretazione anti-sessista del suo gesto. In fondo si è trattato, ha detto, di una reazione per dimostrare che le
donne non si fanno più insultare impunemente da un bullo istituzionale come De Luca. La sua, dunque, sarebbe una risposta a nome di tutte le donne insultate dagli uomini di potere. Indubbiamente, è un’abile motivazione. Che può diventare credibile visto che quando De Luca l’ha apostrofata nel modo vergognoso che tutto il mondo conosce, nessun dirigente del Pd ha avuto il coraggio di dire: “De Luca è estraneo alla cultura politica del Pd, gli avversari si rispettano al di là della lotta quotidiana contro le loro politiche. Non se ne può più delle sue sconcezze.” Parole semplici e necessarie: perché non sono state pronunciate allora? Eppure, già De Luca ne aveva dette e scritte di tutti i colori contro avversari interni ed esterni, una vera e propria enciclopedia di sconcezze, che hanno riguardato anche Elly Schlein. In un suo libro ha sostenuto di non poterla riconoscere come segretaria del partito perché ha tre diverse cittadinanze (italiana, svizzera e americana) e che per tale motivo non può garantire “che le posizioni assunte non siano influenzate da fattori estranei agli interessi nazionali”.
Quale offesa più grande si può fare a un segretario nazionale di un partito (per giunta, il proprio) che di accusarla di non essere in grado di difendere gli interessi nazionali perché ha studiato in Svizzera e lavorato negli Usa? Salvini non avrebbe potuto esprimersi peggio. Se i dirigenti del Pd avessero preso per tempo le distanze da questo personaggio, la Meloni avrebbe avuto oggi meno argomenti a difesa del suo gesto.
*già pubblicato sulla Repubblica