SUD e SVILUPPO. Andare oltre la richiesta di risorse. Serve una politica di investimenti

SUD e SVILUPPO. Andare oltre la richiesta di risorse. Serve una politica di investimenti

Calodi DARIO MUSOLINO -

Tre articoli recentemente usciti sulla stampa (Alfonso Ruffo, Sole 24 ore; Isaia Sales, Il Mattino; Aldo Varano, Zoomsud) dipingono in modo equilibrato ma netto, la condizione del Mezzogiorno, e le logiche che hanno guidato l’intervento per il Sud degli ultimi decenni e che lo hanno portato alla situazione attuale. Tutti e tre infatti sottolineano come la questione chiave che ha caratterizzato le politiche per il Sud negli ultimi decenni sia la riduzione delle risorse verso di esso indirizzate, a relativo vantaggio delle altre ripartizioni del paese. Uno squilibrio crescente nella ripartizione delle risorse che penalizza ulteriormente, nel lungo periodo, le condizioni economiche della popolazione meridionale, e le possibilità di crescita e sviluppo.
Ci sono tuttavia due punti, uno di linguaggio, o meglio di comunicazione, e uno di contenuto, su cui vale forse la pena di fare qualche ulteriore specificazione e osservazione.

Il primo punto fa riferimento alla mancanza nei tre articoli di una parola-chiave, tanto scontata, forse, quanto fondamentale: investimenti. Quando si parla della riduzione del flusso di risorse verso il Sud, la questione più grave legata al disimpegno verso il Sud non è la mera riduzione delle risorse, complessivamente considerate, ma è in particolare la riduzione delle risorse destinate agli investimenti.

Parlando solo di risorse, il messaggio che rischia di passare è che siano comprese tra queste anche le risorse destinate ai consumi, all’assistenza, ovvero quelle risorse mirate al mantenimento di quel modello di economia dipendente (consumi e tenore di vita ampiamente superiori alla capacità di produzione), per non dire parassitario, che è evidentemente oggi insostenibile, e non giustificabile. La parola “investimenti” fa invece riferimento ad interventi dello Stato abbastanza mirati, ovvero potenziamento delle infrastrutture e dei collegamenti di trasporto, delle infrastrutture di telecomunicazione, opere contro il dissesto idrogeologico e per la mitigazione dei rischi derivanti da eventi catastrofici naturali, infrastrutture civili (scuole, asili, tribunali …), maggiore sicurezza “ambientale” per le persone e le attività economiche, ecc. E’ un punto forse scontato per gli addetti ai lavori, ma che va comunque ribadito e sottolineato; diversamente si rischiano perniciosi fraintendimenti.

Il secondo punto fa invece riferimento al contesto, più ampio, nazionale, quello delle politiche di sviluppo in Italia, in cui si inserisce il disimpegno dello Stato dal Sud. La riduzione di risorse per gli investimenti al Sud avviene in un quadro generale di riduzione delle risorse disponibili per l’intervento dello Stato: nel rimpicciolimento della torta, il Sud ne ha la peggio, come giustamente osservato dagli autori. Essenzialmente, per una questione di rapporti di forza territoriale.

C’è quindi, innanzitutto, un problema a monte, che si chiama impegno complessivo sempre più limitato dello Stato per le politiche di sviluppo. Una dinamica legata sia ai crescenti vincoli di spesa a cui, per tante ragioni, da alcuni decenni va incontro lo Stato, ma soprattutto alla mancanza di una visione strategica dello sviluppo economico del paese, che ormai manca da parecchi anni. Forse dovuta anche al prevalere di visioni dello sviluppo ideologicamente ostili all’intervento dello Stato nell’economia. Si consideri che oggi le politiche industriali sono sostanzialmente assenti dalle strategie di sviluppo economico dello Stato centrale. Ed è evidente che, mancando le politiche industriali, l’area che per ovvie ragioni dovrebbe essere la maggiore destinataria di queste politiche, il Mezzogiorno, ne esce oltremodo penalizzata.

Tutto ciò, la carenza di investimenti al Sud nel contesto di una mancanza di visione strategica dello sviluppo economico e industriale dell’intero paese, è un argomento ben noto in tanti ambienti. Si veda per esempio il manifesto per la politica industriale promosso da Raffaele Brancati, noto economista industriale, firmato da decine di economisti; oppure il gruppo di discussione “Crescita, Investimenti e Territorio”, formatosi nell’ambito delle scienze regionali e animato da Riccardo Cappellin; oltre che le posizioni sulla stampa di tanti economisti, a partire per esempio da Mariana Mazzuccato che su alcuni articoli su Repubblica ha ben analizzato l’argomento.

Ora, è evidente che oggi non c’è più spazio, come dicevamo sopra, per la riproposizione di un modello di economia dipendente, per cui non ci si può attendere una ripartenza del flusso di risorse che rimetta in piedi questo modello; ma c’è certamente spazio per far ripartire una politica degli investimenti, mirata, selettiva, trasparente, e con numeri e impegni rilevanti, in particolare al Sud. Ma questi investimenti potranno ripartire anche se, a monte, a livello centrale, una visione più ampia e condivisa, sulla necessità e l’utilità dell’intervento dello Stato per lo sviluppo economico, si re-imporrà.

Fino a quando i fattori critici di contesto, ovvero gli svantaggi esterni che penalizzano le imprese di tante regioni meridionali (isolamento, inaccessibilità, distanza dai mercati, inadeguatezza delle infrastrutture civili, insicurezza rispetto alla criminalità organizzata, ecc.), non verranno attaccati e limitati con adeguate politiche degli investimenti, e con politiche industriali mirate, i detrattori del Sud avranno gioco facile ad enfatizzare la presunta incapacità dei meridionali a creare da sé le loro occasioni di sviluppo; il Sud più autocritico, colpevolista e caratterizzato da un atavico complesso di inferiorità, si trastullerà più agevolmente sulle sue ragioni; e il Sud innocentista avrà altrettanto agio nel continuare a individuare solo nelle classi dirigenti settentrionali i responsabili della situazione.