
Fava indica nell’asciuttezza della cronaca la caratteristica da far prevalere nella futura simbologia della lotta alla mafia, ed è un invito che egli fa esclusivamente ai giornalisti – mi pare – o comunque ai comunicatori dell’impegno antimafia, siano essi massmediologi, insegnanti di scuola, uomini di cultura e dell’associazionismo. È importante questo appello, ma, ritengo che occorrerebbe andare più in profondità: prima di tutto è fondamentale seccare i pozzi che in questi anni hanno reso necessariamente pomposo il racconto.
Si cadrà nello stesso vizio, della retorica quando va bene e della sfacciata bugia quando va male, se non si comprende che il paradigma va fatto saltare per intero e in questo i giornalisti hanno grosse responsabilità: il contrasto alle mafie non è la “lotta del bene contro il male”, ma è “soltanto” un’urgenza democratica, sempre uguale da almeno 30 anni nel nostro Paese, che non si deve affrontare con l’approccio dello schieramento o della fazione, semmai con quello del rigore della legge e dei comportamenti civili.
Voglio dire che nel racconto dell’antimafia abbiamo ucciso il dubbio e il distinguo, non per pigrizia o sciatteria, ma solo perché la scena non è fatta per gli aspiranti stregoni ma è dominata, pena l’esclusione, da troppi “sacerdoti del bene” che non puoi contraddire quando sono impegnati nei loro riti, siano essi una conferenza stampa, una marcia o un convegno a scuola. Fa bene Fava a stuzzicare una riflessione sulla semantica, “non usiamo più il termine antimafia” esorta, ma non è un problema di linguaggio quello che abbiamo, quanto piuttosto un problema politico grande come una casa.
E qui arrivo al secondo sforzo incompleto del vicepresidente Fava, che mi è sembrato buttare la croce sui giornalisti, indicando perfino le “buone pratiche” che devono seguire, dimenticandosi di altri pezzi della “filiera del pennacchismo”.
La lotta alle mafie è fuori da ogni agenda nazionale, e nelle regioni come la Calabria – dove invece dovrebbe essere il pane quotidiano di tutti – assistiamo alla radicalizzazione dei “sacerdoti del bene”: siano essi magistrati, giornalisti o comprimari vari, approfittano di uno spazio lasciato colpevolmente libero dalla politica. Se dunque l’appello all’asciuttezza che fa il Fava-giornalista mi convince, nel senso che ne capisco la genuinità, allo stesso tempo trovo che il suo limite metodologico – quasi come una sorta di alienazione dalla quotidianità delle redazioni giornalistiche in terre di mafie, scadenzata dalle operazioni antimafia – rischi di assolvere troppo velocemente anche la politica, a Roma come in Calabria.
Mi preoccupo, cioè, non dell’orfananza del termine antimafia ma delle sue future declinazioni. Conosco, perché ne ho scritto, paladini dell’antimafia che tutti sapevano esser patacche e mi chiedo: essendo ancora in auge, cosa ci garantisce che non tornino sul luogo del misfatto, come sempre “sacerdoti tra i sacerdoti del bene”? Ecco perché penso che il tema dei pennacchi sia una questione politica, non tanto di descrizione giornalistica come è sembrato voler dire Fava.
Noi giornalisti possiamo e dobbiamo essere asciutti, evitare fronzoli, raccontare storie semplici, uscire dagli schieramenti. Ma la strumentalizzazione politico-sociale di quel racconto, quella fame forsennata di eroi, non la risolviamo cambiando un titolo o tagliando un pezzo. Per ridurre il potenziale mefitico dell’approccio “lotta tra bene e male”, la prima azione è quella che compete ai politici: che di “pennacchi”, in questa epoca senza partiti veri e con ideologie finte, certamente sono più ingordi di tanti altri “sacerdoti narcisi”.