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Sarà l'uso consapevole dei social a permetterci di tutelare la nostra privacy? Il caso di Cambridge Analytica e Facebook.

Un po’ il sospetto lo avevo avuto. Scorrendo la home di Facebook, nella parte riservata agli inserti pubblicitari, mi comparivano articoli simili a quelli che avevo appena cercato sul web, che fosse Amazon o Ebay o altra diavoleria commerciale in rete. E così mi ritrovavo, come suggerimenti per l’acquisto, proprio quelle cose che avevo appena cercato: capsule del caffè, racchette da tennis, indumenti, bambole gonfiabili, un triplete per la Juve, un segretario per il PD, un alleato per Giggino Di Maio. Cose semplici, che un po’ tutti cerchiamo in rete. Va da sé che la vicenda di Zuckerberg e Cambridge Analytica non mi ha sorpreso affatto. No, lo dico perché mi sembrate tutti scandalizzati dal fatto che pubblicare i fatti propri in rete o utilizzare il web per i propri acquisti, possa comportare che qualcuno, nascosto fra microchip, cavi in fibra ottica, modem o server, possa essere in grado di schedarci secondo i nostri usi e consumi e magari vendere tali schedature a società che poi saranno in grado di orientare le masse verso alcuni tipi di consumi, o partiti politici a correggere le proprie proposte per renderle appetibili ad un maggior numero di persone. Stupirci di ciò è come restare allibiti di fronte a una sconfitta dell’Inter in chiave scudetto, o meravigliarsi che Berlusconi inviti a casa propria la nipote di Mubarak. In tema di dati sensibili e dell’uso che di essi ne fa chi li detiene, siamo tutti più o meno abituati al peggio. Il che non significa accettare supinamente la realtà e subirla, quanto piuttosto prenderne atto e cercare di limitare i danni. D’accordo, è un sistema malato, ma lo è nella misura in cui siamo tutti complici di quanto accade e di ciò ne ha dato piena evidenza quella foto raffigurante Zuckerberg ed un bimbo che candidamente dice al primo “mio padre mi ha detto etc etc” e Zuckerberg risponde “non è tuo padre”. Eccoci servita la realtà: noi oramai comunichiamo attraverso parole scritte, sui vari social, e tali parole restano impresse nei cavi in fibra ottica e in tutte quelle diavolerie che ho sopra elencato. Sono macchie indelebili, che non elimini nemmeno con la candeggina rinforzata e siamo noi che mettiamo sul piatto in cui mangiano gli avvoltoi, il pranzo. Glielo serviamo amorevoli, ed è come se un condannato a morte suggerisse al boia come prendere bene la mira. Sì, è il progresso, quello che ci consente di parlare in tempo reale con uno sconosciuto in Groenlandia, di sapere che Tizio e Caia si sono appena fidanzati, ciò che Sempronio ha mangiato al cenone di Natale, quanto pesa il neonato di una coppia di Forlì, oppure che fine abbia fatto Marina Suma (a proposito, pare abbia una bancarella di oggetti artigianali a Salina). Ma a fronte di questo progresso meraviglioso che ci consente di comunicare gratis con tutti, di esibire i propri fatti sui social, mi pare sia da ingenui non pensare che chi ci fornisce tali strumenti lo faccia per puro esercizio di bontà francescana. E’ ovvio che un carrozzone come Facebook abbia dei costi e se non glieli pago io quei costi, necessari perché io possa farvi sapere che nel ferragosto del 2008 ho fatto il bagno nudo di notte ma a casa mia, qualcuno li deve pur pagare. E, a meno che non si tratti di fantascienza, che io sappia quando qualcuno paga, qualcosa in cambio deve avere, ovvero: i nostri dati. Ora, se ci scandalizziamo noi è un conto ma che si arrivi al punto che gli americani (sì, proprio loro, gli ammmericani!) convochino al Congresso il nostro caro Mark per chiedere chiarezza di quanto successo rende il quadro ancor più paradossale, come quando il bue dice cornuto all’asino (che nel frattempo sta nelle federe). Tutto bellissimo e vero e così il poveruomo si è trovato a dover difendere il suo sistema Facebook, basato sulla pubblicità, confermando la vendita dei dati a Cambridge Analytica e non escludendo che in futuro ci possano essere forme di pagamento per usufruire di FB, per ovviare alle criticità di cui si è detto. Resta il fatto, non di poco conto, che come sempre gli utenti, cioè noi, in punto di fatto, abbiamo delle possibilità per limitare i danni: basterebbe ritornare a comunicare via telefono, a voce, e solo quando sia strettamente necessario, limitando così l’uso dei social e delle chat; evitare di fare sesso virtuale mediante scambi di foto oltremodo intime con sconosciuti/e per non correre il rischio di essere ricattati; evitare accuratamente di pubblicare selfie mentre gustate un aperitivo di fronte al mare, soprattutto geolocalizzandovi, se non volete che gli altri sappiano dove siete; evitare di mettere foto di bambini, di qualsiasi bambino, bianco, nero, siriano, moldavo, sano, malato, onde provocare un moto di commozione, facendo scempio della dignità di cui avrebbero diritto soprattutto gli indifesi e potrei elencare decine e decine di altre situazioni di uso sconsiderato del social “più amato dagli italiani”. Come sempre e come in quasi tutte le cose che ci riguardano, vi è una quota di corresponsabilità nostra nella degenerazione di un sistema, politico sociale e/o economico che sia, per la cui soluzione vi è sin da subito, una strada da seguire, la più semplice ma anche la più costosa in termini di autocelebrazione e si chiama: riservatezza.