
Un giorno di molti anni fa, la memoria che ci appartiene, faceva sedere la giovane praticante nel fondo di un’ aula. Distante. Per lei Riina non esisteva. Esistevano il processo, le sue articolazioni formali, la dialettica affascinante degli avvocati, il bisogno di avere un bollino di presenza sul libretto di praticante. Pensava di essere trasparente. Non aveva calcolato che il male può assumere forme grottesche e deformi, quasi comiche se non fosse per i suoi protagonisti. Perché l’animale in gabbia, contro cui si celebrava l’ennesimo maxi processo, si era accorto di quell’anonima ragazza seduta nel fondo dell’aula, che non lo guardava, ignorandolo. L’animale in gabbia, approfittando di una improvvisa vicinanza della giovane, le aveva parlato, facendole notare la sua distanza: “si ricordi, signorina, che io la rispetto e la saluto” . L’uomo d’onore non era stato “rispettato” da una femmina, che manifestava il suo disprezzo sedendosi in fondo all’aula di udienza. La praticante lo aveva guardato come si fa con ciò che appare oscuro, incomprensibile e profondamente idiota. I mafiosi sono animali in gabbia, ha pensato la ragazza, con gli istinti primitivi delle bestie, che vedono e annusano, con la ferocia di chi segna il territorio pisciandoci sopra. Lei ha continuato a sedersi distante senza guardarlo nei giorni successivi, fino a che non è più tornata nelle aule del processo. E’ stata la sua risposta sopra le scale, come dicono gli inglesi. Quella che non era riuscita a dare nell’immediatezza.
Oggi che Riina è morto, continua a sentire la distanza di allora. Poi pensa ai sorrisi di Falcone e Borsellino. Pensa a chi era con loro quando hanno messo le bombe. A come all’improvviso, l’orrore ha cambiato lo sguardo di tutti noi, rendendolo, per molti, anche più consapevole. Di Riina, invece, le rimane l’immagine di un uomo in gabbia, dall’odore nauseante. Il male puzza, in quel suo modo patetico di manifestarsi. E non è l’odore dello zolfo.
Che la terra ti sia pesante.