L'ANALISI. Mafie, corruzione, pregiudizi e luoghi comuni (talvolta interessati)

L'ANALISI. Mafie, corruzione, pregiudizi e luoghi comuni (talvolta interessati)

legalità

C’è stato un tempo in cui si diceva che la mafia non esisteva, e che era solo un’espressione del carattere “bollente” dei siciliani, un comportamento e non un’organizzazione. Giuseppe Pitrè nel libro Usi, costumi, usanze e pregiudizi del popolo siciliano sostenne che “la mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e di idee; donde la insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui”. Anche lo scrittore Luigi Capuana la pensava allo stesso modo. Così come i rappresentanti della Chiesa cattolica. Il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini scrisse a Paolo VI (preoccupato del silenzio della Chiesa siciliana sull’eccidio di Ciaculli del 1963 in cui saltarono in aria per una bomba sette rappresentanti delle forze dell’ordine) che la mafia non esisteva come organizzazione, e che il risalto che se ne dava era opera dei comunisti per colpire i democristiani.

Il negazionismo, o la nobilitazione della mafia, coinvolgerà anche la stragrande parte dei magistrati siciliani. Nel 1955, il primo presidente della Corte di Cassazione, Guido lo Schiavo, scriverà questo sconcertante commento sulla morte di Calogero Vizzini, allora capo di “Cosa nostra”: “Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi ed ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine”.

La storia della lotta alla mafia è stata costellata di pregiudizi che ci hanno impedito finora di comprenderne le reali caratteristiche.

Si può, ad esempio, legare un reato ad una appartenenza territoriale? Nel caso della mafia ciò è avvenuto. Ed è forse questo il più incredibile caso di “diritto penale a caratterizzazione etnica” (mai codificato ma di fatto spesso così interpretato). Come se non fosse possibile essere mafiosi oltre certe latitudini.

Il primo pregiudizio ha avuto a che fare, appunto, con il convincimento che fosse la Sicilia il luogo esclusivo di produzione mafiosa. Ci sono voluti decenni per assimilare alla mafia siciliana altre forme di violenza presenti in altri territori. L’indubbia originalità di “Cosa nostra” si confondeva con la sua (ritenuta) esclusività. Questo convincimento aveva influenzato anche la prima legislazione antimafia varata dopo l’uccisione di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa, così come i lavori della prima Commissione parlamentare antimafia, che si era occupata quasi esclusivamente della criminalità siciliana, non ritenendo la camorra e la ‘ndrangheta degne di attenzione.

C’è voluto del tempo perché maturasse un nuovo orientamento: anche in Campania, in Calabria e poi in Puglia, operavano forme criminali similari alla mafia. Si incrinava così il convincimento che il fenomeno mafioso fosse una connotazione esclusivamente siciliana. Che tale modello di violenza si era affermato in Sicilia prima che in altre parti era un dato storico, non etnico; e che esso si potesse presentare in altri contesti diversi dalle proprie origini era una previsione fin troppo facile da formulare.

Ma l’indubbio passo in avanti compiuto con l’allargamento del concetto di mafia ad altre organizzazioni criminali si è scontrato nel tempo con un altro pregiudizio: mafioso può essere solo un meridionale. La Lega di Bossi diede corpo e forza politica a questo diffuso pregiudizio nel Nord: mafia è un fenomeno di arretratezza culturale, civile ed economica, e per questi motivi non  poteva che manifestarsi esclusivamente  nel Sud dell’Italia. Ma fu proprio questo pregiudizio, cavalcato per ragioni politiche, a fungere da ostacolo alla comprensione di qualcosa di nuovo che stava avvenendo nel Centro-Nord: un progressivo insediamento di mafie nei territori più ricchi e “civili” con una produzione autonoma di “violenza di relazione e di potere” non dovuta solo a campani, siciliani, pugliesi o calabresi. L’omicidio del giudice Bruno Caccia a Torino avvenne nel 1983 e in quegli stessi anni a Roma operava con metodo mafioso la banda della Magliana.

Ed ecco manifestarsi un analogo fenomeno di negazionismo. Al di là delle strumentalizzazioni politiche della Lega, era indubbiamente difficile capire cosa stava succedendo usando le categorie interpretative della mentalità e della arretratezza, perché si stavano riproducendo fenomeni mafiosi in contesti economici non arretrati e laddove i rapporti sociali erano caratterizzati da una diversa  “mentalità”, da una più ampia partecipazione democratica e da maggiore interesse alla “cosa pubblica”.

E’ chiaro che la presenza fisica di mafiosi di per sé non può essere motivo sufficiente per il loro successo in nuovi territori.  C’è bisogno di una domanda che ne richieda i servizi. Nel Centro-Nord c’è stato un incontro di interessi tra operatori economici e portatori di violenza (e di capitali). I casi di imprenditori in affari con le mafie per ragioni di competitività delle loro aziende sono tanti che non possono più rientrare nella definizione di “accidente” ma in quello di “sostanza”. Ci sono sempre “buone cause” per relazionarsi con le mafie. In definitiva, non esistono territori o settori immuni alle mafie in presenza di una impressionante domanda di servizi e di prestazioni illegali.

Oggi nel campo delle mafie c’è un’ulteriore forma di negazionismo. Si sostiene che indubbiamente è vero che le organizzazioni mafiose si riproducono anche in ambienti lontani dai loro territori di insediamento storico, ma sempre siciliani, campani e calabresi ne sono i componenti. I “richiedenti” di servizi mafiosi sono spesso settentrionali ma la composizione dei clan è fatta quasi esclusivamente di meridionali. Vedremo quali saranno gli sviluppi futuri nel Centro-Nord di questo “tenera relazione” tra affari e violenza. Sta di fatto che a Roma sono già state condannate per mafia organizzazioni criminali di cui non fanno parte né siciliani, né calabresi o tanto meno campani. Ciò non vuol dire affatto che ogni forma criminale presente a Roma sia necessariamente di tipo mafioso. O che ogni forma criminale che si organizza al Nord debba sempre essere sanzionata con il 416 bis. Ma ormai il nesso tra appartenenza territoriale (meridionale) e mafiosità è spezzato da tempo. E la corruzione svolgerà sempre più la funzione di raccordo tra due mondi che oggi possono sembrare distinti. Perché non sono le mafie a causare la crescita della corruzione, esse arrivano dove già c’è. Il nuovo radicamento extraregionale delle mafie è legittimato proprio dall’impressionante estensione della corruzione e da un’economia che si muove sempre di più fuori da ogni rispetto delle leggi. Al di là di ogni valutazione giuridica, il caso di Roma lo prova ampiamente.

**Saggista, già sottosegretario del governo Prodi, editorialista dl Mattino