«Vista un po' dall'esterno, per me che ho lavorato per decenni con i ragazzini come Ugo Russo o come Luigi Caiafa , tutta questa vicenda delle contrapposizioni intorno ai murales e agli altarini da rimuovere suscita profonda amarezza».
Professoressa Maria Franco, perché?
«Perché il fatto che nella società cosiddetta civile addirittura ci si divida, sul tema di evitare facili mitizzazioni attraverso un dipinto su un muro, più o meno abusivo, è un po' deprimente. E poi per un originario, fondamentale motivo. Che cosa si fa per loro: prima che impugnino una pistola, non dopo?».
Il nulla o quasi?
«Quando sono in vita, mi pare nulla. Quando diventano, purtroppo, cadaveri: noi, i benpensanti, vorremmo cavarcela con un altarino? Con un murale ben scritto o corretto, cui dare la nostra adesione? Un po' poco, mi pare. Ed è chiaro che tanti altri finiscano per riconoscersi in quelle immagini».
Maria Franco, tra i 5 docenti italiani vincitori nel 2017 dell' Italian Teacher Prize, è tra le voci più qualificate a parlare delle giovani vite bruciate a Napoli, e non solo. Accanto al direttore Gianluca Guida, per 35 anni è stata docente di Italiano dei minori detenuti a Nisida, ma non si è limitata a fare lezione. Creatrice di laboratori, ha mobilitato autrici e autori napoletani. Ha curato interessanti raccolte, con firme autorevoli: in cui finiva anche il frutto di quegli incontri con i minori. Racconti nati dal dialogo tra chi voleva scardinare la loro afasia e chi aveva conosciuto la violenza, una pistola, prima della parola. Adesso, Franco è in pensione ma continua a scrivere e ad occuparsi di questi temi: «Anche se momentaneamente in Calabria, la terra delle mie origini. Accanto a mia madre novantenne, che aspetta il vaccino».
Professoressa, la prefettura chiede tolleranza zero su scritte e dipinti celebrativi. Così ì il murale di Caiafa sparisce, quello di Ugo Russo no. Non si rischia persino la discriminazione post-mortem?
«Non giriamoci intorno. Partendo dal presupposto che non si dovrebbe morire sotto i proiettili di Stato, a 15, o 16 o 17 anni, va detto che quelle scritte, quei murales appartengono alla ritualità di un mondo che fa di questi ragazzi anche dei "santini". È un po' strano che non si veda questo. Anche se so che è solo un frammento del problema».
Non le è piaciuto l'appello degli intellettuali affinché resti quel murale?
«Ho massimo rispetto per tante posizioni espresse. Ma credo che alcune siano proprio dettate dalla nostra cattiva coscienza come società. Come se ci fosse sempre una ipocrisia di fondo, che cela i nostri sensi di colpa collettivi. In fondo lo sappiamo che nascere in alcuni contesti significa spesso essere condannati. E sappiamo che noi, lo Stato, le politiche sociali, non andiamo oltre le nostre parole, non riusciamo ad operare nessun reale cambiamento, né ad offrire chance. Detto questo, ruspe o imbianchini di Stato non sono sufficienti. Siamo comunque punto e a capo».
Nell'ultima raccolta da lei firmata, "Dietro l'angolo c'è ancora strada. Per un lessico nisidiano", c'è uno di questi ragazzi che, nel racconto di Riccardo Brun, dice secco: «La gente parla parla si riempie la bocca, ma poi al finale noi al massimo andiamo bene per portare i caffè ai loro figli che stanno in giacca e cravatta dentro a un ufficio».
«Non è casuale quel passaggio. Brun lo ha scritto proprio ispirato dalla vicenda del carabiniere che spara e uccide Russo, durante la rapina con la pistola finta».
Insomma: sbianchettare un volto è giusto. Ma poi serve una comunità educante, che salva.
«Ecco, mi aspetterei discutessimo in questo senso: politiche sociali. Aiutare i tanti che rischiano di fare la stessa fine. Io mi chiedo: come pensiamo di intervenire, in certe fasce sociali, dopo un intero anno di scuola chiusa in presenza? Chi li misura quei danni? Chi lo sta preparando un grande, straordinario Piano di intervento? Dovremmo pensare notte e giorno a un investimento eccezionale di competenze e risorse su questo».
Lei ne ha conosciuti, di minori che hanno colpito, o ucciso.
«Sì. E nella gran parte dei casi non avevano scelto il crimine. Ma di escalation che erano il frutto di profonde inadempienze, di voragini culturali, ed anche economiche. Io ho avuto tra i miei allievi un ragazzino, molto sensibile, che fu amico di scorribande di Davide Bifolco...».
Un altro 16enne ucciso, nel 2014, da un carabiniere durante un inseguimento al Rione Traiano.
«E quando fu ammazzato, questo amico lo visse come un atto di profonda ingiustizia, di ferita. Non dico fosse il suo idolo, ma un riferimento, un santino. Anche se poi ragionandoci, diceva lucidamente: anche il carabiniere è un povero cristo che si è trovato là».
Lei ha lavorato in quei contesti per ben 35 anni. Cos'è cambiato? Che cosa ha imparato, lo Stato, da queste sconfitte?
«Nulla, mi spiace. Purtroppo non è cambiato nulla o quasi. Per questo, dico: va bene anche demolire l'altare elevato in funzione anti-Stato. Ma il contraltare dello Stato: manca».
*giornalista di Repubblica, su cui questa intervista è gia stata pubblicata.