Sono una calabrese che combatte ormai da più di dieci anni con una malattia subdola autoimmune per le cui cure ho avuto modo di sperimentare diverse realtà sanitarie regionali: alla fine per competenza territoriale sono stata “affidata” alla Calabria, per la precisione al distretto sanitario ospedaliero di Scilla.
Oggi più che mai provo disperazione e rabbia per il modo in cui noi calabresi veniamo trattati: l’emergenza covid ha infatti messo ancora più a nudo le inefficienze, le disorganizzazioni, la brutalità del sistema sanitario locale ospedaliero.
Si dice spesso che la colpa del mancato miglioramento della Calabria e del suo sistema sanitario pubblico sia responsabilità dei calabresi silenziosi: oggi io alzo la mia voce per denunciare quanto segue: voi, le istituzioni, chi è preposto e pagato per organizzare, decidere e migliorare, cosa fa? Credo nulla, cosi come è stato fino ad oggi attribuendo responsabilità sempre a quello che c’è stato prima e mai a se stessi: etica, deontologia, onesta intellettuale vorrebbero che chi si rende conto dell’impossibilità di eseguire il mandato ricevuto, rinunci all’incarico per cui è pagato.
Periodicamente mi reco presso l’ospedale di Scilla per il ritiro di dispositivi medicali indispensabili alla cura giornaliera di una malattia che mi accompagnerà per tutta la vita, di qualunque durata essa sarà: la procedura che osservo, cosi come tutti gli altri che necessitano di medicine non reperibili presso le farmacie, ma dispensati esclusivamente attraverso i presidi ospedalieri autorizzati, è quella che segue.
La farmacia, a Scilla, riceve esclusivamente due giorni a settimana, martedì e giovedì, nell’orario tra le ore 9 e le 12:30 (buon senso avrebbe voluto, ora più di prima, per evitare assembramenti, che fossero dedicati più giorni al servizio: invece, solo qui, non è cosi). Il turno per ottenere i farmaci è ratificato dalla prenotazione scritta su di un foglio di carta, anche in quest’ultimo anno, nonostante il covid, con l’uso di una penna da tutti mai adoperata e disinfettata (dopo la prima volta chi ha buona memoria porta la propria e sta attento, ma vi assicuro che siamo pochissimi). Nonostante la prenotazione, l’ordine dei malati in attesa, (mediamente sempre una trentina, se non più) viene spesso inficiato dai reclami per la mancanza dei medicinali; dall’arrivo di pazienti ripetutamente rimandati in precedenza, (che sperano di reperire finalmente quanto loro necessario e non disponibile, nonostante la registrazione delle richieste); dal ricevimento degli informatori scientifici, che occupano anche, sempre durante l’orario di dispensazione, intervalli temporali abbondanti, oltre i 20/30 minuti, incuranti delle persone in piedi in attesa. Insomma: disorganizzazione, malcostume e anche ineducazione.
Lo spazio di attesa è promiscuo con quello di accesso alle sale vaccinazione covid: grande lungimiranza di chi ne ha disposto l’ubicazione, in barba alla tutela rafforzata e necessaria. Nel corridoio non esistono dispositivi di igienizzazione, assente anche il rumore del sistema di areazione sostituito dalla sola naturale ventilazione di una porta aperta alla fine del corridoio. Dalla consegna alla farmacia del proprio piano terapeutico al ritiro del farmaco si attende una media di 25/30 minuti (prenotatami alle 7:30, numero 11, consegno il foglio alle 9:45, ritiro il farmaco alle 10:10), tutto registrato sempre in forma cartacea, assente qualsivoglia forma di privacy, farmacista che tocca tutto sempre a mani nude.
Ogni tanto la dottoressa ricordandosi del pericolo di arrivo dei nas (così urla), esce dal suo gabbiottino e va a sbraitare contro la povera guardia, impegnata e sola all’ingresso dell’ospedale per disciplinare gli accessi vaccinali, e il loro disordine organizzativo assoluto.
Tutto quanto descritto è realtà quotidiana di una struttura che in un Paese civile non potrebbe, in tali condizioni, neppure rimanere aperta.
Il Ssn pubblico è un diritto , che sia offerto cosi è una responsabilità esclusiva di chi ci governa sia a livello regionale, ma soprattutto centrale, perché viene negato il diritto costituzionale alla salute, il diritto alla pari dignità dei cittadini su tutto il territorio nazionale, indipendentemente dalla regione: siamo di fatto discriminati come italiani, colpevoli di abitare nella regione sbagliata.
Ma io non ci sto, non lo accetto, perché cosi come tutti i cittadini della mia terra non merito tale trattamento, non mi vergogno di essere calabrese, mi vergogno di essere italiana, perché il Paese che merita di essere amato, condiviso, difeso e onorato dal suo popolo è lontanissimo da tutto questo. Sono fermamente voluta tornare a vivere e a lavorare nella mia terra, piena di gente per bene, desiderosa di miglioramento, che fa quotidianamente il proprio dovere onestamente, cercando di lasciare un futuro migliore ai propri figli, ma oggi più che mai, anche alla luce delle verità messe a nudo dall’emergenza covid, mi considero sconfitta, fallita nelle mie convinzioni, consapevole che ciò che facciamo noi cittadini calabresi nel nostro piccolo, ogni giorno, non possa bastare: una pia illusione ritenere che l’azione del singolo possa essere sufficiente per il rinnovamento, per un cambiamento sociale e civile.
Spesso, anche dagli organi giudiziari, si fa appello contro il silenzio della società civile: un alibi comodo a tanti e per tanti: la verità è che l’esempio e l’avvio del cambiamento debbano venire principalmente dallo Stato, che sembra invece essere il nostro nemico, che ha dimenticato il popolo calabrese, a abbandonato ad un destino deciso da pochi e subito da tanti.
Esistono leggi speciali, strumenti di controllo e organizzazione che possono migliorare il nostro territorio: basta solo volerlo.
Un esempio banale: informatizzare in modo accentrato, cosi come è stato fatto per esempio per la lotteria degli scontrini, la rete ospedaliera attraverso l’uso della tessera sanitaria per le prenotazioni, gli avvisi, i ritiri, per tutto ciò che afferisce la gestione sanitaria: ci vorrebbe poco, migliorerebbe efficienza, garantirebbe trasparenza e tracciabilità.
I calabresi lo vogliono, ma lo Stato, le istituzioni, i Governi regionali non credo. Vergogna!
*Questa lettera è arrivata in redazione regolarmente firmata. La direzione di Zoomsud accertata l'identità di chi l'ha inviata ha deciso, in modo autonomo e senza alcuna richiesta del mittente, di non firmarla a tutela della nostra lettrice, Al.Va).