di TIZIANA CALABRÒ - Francesca arriva tutti i giorni, con la mano della bambina, tonda e minuta, custodita nella sua. Aspettano insieme che il fratello esca dalla porta, liberato dal suono urgente dell’ultima campanella. I due bambini non sono i suoi figli, che la raggiungeranno dopo, in quel posto di attese. Uno dei tanti dentro la città di Reggio Calabria. Sono i nipoti venuti dal nord per vivere con lei, con la sua famiglia. Un’emigrazione al contrario. Per forza. Francesca ha il sorriso largo come le sue braccia, sopra un corpo piccolo ed un modo calmo di raccontare il dolore. Ha abbattuto muri dentro la sua casa, per ridisegnare gli spazi mutati, aprirli ai suoi nipoti, accolti con la generosità e la forza delle donne del sud, degli animi miti, della bontà che dice disarmante: ”Mio fratello ha trovato un lavoro … e mia cognata deve guarire e resistere e loro ora sono qui con me”. Come se fosse semplice e normale aprire porte, sentire la paura e non ascoltarla, spiegare, capire, consolare, stare e non fuggire, allargare il cuore a dismisura per far entrare il battito dell’altro. Con quel sorriso che avvolge e consola e un modo lieve e impercettibile di stare al mondo.
Marianna e il figlio arrivano a passo svelto nel cortile della scuola elementare, tenendosi per mano. Lui è alto anche se è un bambino. Marianna ha gli occhi inquieti e mobili, le scarpe da tennis e i seni grandi, che ogni anno cambiano e crescono, come le labbra. Anche il volto muta assetto, come se, ne volesse cancellare la storia, la sua verità, la sua intima bellezza. La stessa bellezza che improvvisa e ignara si mostra, emergendo dall’anima confusa, mentre sorride al figlio che scompare dentro le ore che lo aspettano.
Graziella è stanca. Le sue mani sono stanche e stanchi sono i piedi che attraversano il cortile della scuola. Graziella con quel buio sotto gli occhi, che racconta la paura di non riuscire ad essere padre e madre, quell’uno più uno che la fanno sentire incompleta e dimidiata. E lo vedi lo sperdimento, nella luce spenta degli occhi, nel loro grido muto che dice ma sì che si fottano, che mi lascino in pace. Ma poi, ogni mattina ritorna in quel cortile, che attraversa con i passi arresi che raccontano per lei la sua storia.
Paola ha un corpo perfetto da ragazza, che esibisce con la naturalezza di una donna e la percezione precisa e geometrica di ogni suo centimetro femmina. Arriva in ritardo a raccogliere i figli sparsi nel cortile, camminando senza fretta sui tacchi, che indossa come fossero pantofole. Passa davanti ai padri che fingono indifferenza, traditi da una spalla che sobbalza, dalle dita che allentano la cravatta, dai sorrisi complici e veloci che si scambiano tra di loro, come adolescenti cretini, sotto l’effetto allucinogeno di quel corpo che addensa l’aria.
Vittoria arriva con il passo deciso di chi deve andare in guerra e vincere. Perché lei è il buono della storia e gli altri i cattivi da sconfiggere. Cattivi sono i compagni di suo figlio, cattive le maestre, cattive le mamme che non la capiscono. Quando arriva, lei cerca con lo sguardo gli altri. Per lamentarsi dei compiti, del compagno maleducato, del mondo che va a scatafascio, della scuola che non è più come quella di una volta. Poi torna a casa. Il figlio un passo dietro, curvo sotto il peso dei libri nello zaino e di sua madre in cerca di nemici, con cui sfogare chissà quale rabbia.
E poi ci sono Alberta, Caterina, Anna, Maria e tutte le altre donne, nel cortile della scuola elementare, in un brusio zelante di voci, con le vocali aperte e fruscianti che odorano del sale e dell’acqua della nostra città sbilenca. In un composto alchemico di bellezza, speranza, dolori, sorrisi, paure e attesa, dentro questo posto sospeso, che è guardiano e misura del tempo e spazio dilatato e proteso, che soffia e si insinua tra le storie in divenire delle donne e dei figli del sud.