La Calabria e gli untori

La Calabria e gli untori

Mimmo Gangemi       di MIMMO GANGEMI - “Nato a Santa Cristina d’Aspromonte? Ah”, un sottufficiale dei carabinieri rivolto a me testimone d’una lite furibonda tra maestri di sci e ospiti di un albergo in una stazione sciistica del Nord. La nascita mi aveva dirottato addosso l’indice della Legge.

Quel “ah” sottintendeva colpevolezza a prescindere. Occorsero le dichiarazioni di tutti per convincerli che mi ero prodigato per dividere e nulla più. Occorse anche una telefonata al maresciallo del mio paese.

Erano gli anni ’90, le prime avvisaglie di ciò che sarebbe diventata caccia all’untore: se calabrese porti addosso la croce di esserlo, è un marchio a caldo, è cicatrice sulle carni. Siamo colpevoli di ’ndrangheta. Di averla. E di esportarla – ma rileviamo nei fustigatori gli stessi nostri peccati: paura, debolezza, omertà, connivenza.

Sì, la ’ndrangheta è una bestia sanguinaria da abbattere fino a non lasciarne per semente, da annegare sotto gli sputi del disprezzo. Con i metodi giusti però. Perché quando giusti non sono, la lotta s’indebolisce. Garantismo e stato di diritto la rendono più forte. Compete a noi cittadini dare testimonianze reali, attraverso gli esempi positivi di ogni giorno. E serve più credibilità della Giustizia. Che sembra esserci inceppata e annaspare se incute paura, per il rischio d’incapparci da martiri, per taluni che, nel comminare pene, presumono d’anticipare il giudizio divino, d’essere un supporto in terra del Padreterno, per le ossessioni di carriera, per smania di protagonismo, ignoranza, superficialità. E per il rischio che divergenze interne sull’analisi del fenomeno e sulle strategie d’attacco provochino faide che lasciano feriti sul campo – come la carriera stroncata al numero due della Dna per vaghe ombre di collusione poi risultate infondate. È di questi giorni il j’accuse di un magistrato della Procura di Reggio, con critiche ai protagonisti delle indagini e alla maniera di gestire i risultati investigativi.

Oggi icone antimafia rovinano nella polvere. Non compete a me dire se siano colpevoli – certo, su una pesa che abbia condotto le indagini un magistrato che non sbaglia un colpo. Se lo sono, marciscano in carcere. Ci vado cauto però. Attendo prima d’abbattere la mannaia. Perché ho già visto la caccia all’untore, gli innocenti dati in pasto all’opinione pubblica, le crocifissioni: un vescovo, le cui cooperative furono indagate, è andato via ed è oggi fuori da ogni sospetto; un sindaco galantuomo in carcere per un reato squagliatosi come la neve d’aprile, e che è corso lontano, portando con sé le ceneri di un’azienda che dava da campare a molti; industriali risultati estranei dopo anni di calvario e dopo che le loro attività, in amministrazioni forzate, sono fallite; un’impresa di costruzioni costretta a chiudere perché un paladino antimafia – vittima, a dire suo e di nessun altro, della ’ndrangheta – ha deciso che bastasse la provenienza Gioia Tauro a etichettare ’ndranghetista, e non lo è, il titolare. Eccetera, eccetera. Per non parlare di alcune grandi indagini con decine di arresti, al quaglio ridotti all’osso, i più innocenti e scarcerati, da indurre il pensiero che, più che di operazioni di polizia, si sia trattato di rastrellamenti per rappresaglia.

I numeri, poi. Essi, in libertà, al contrario dei tanti immolati ingiustamente. L’assurdo 27% della popolazione di Reggio e provincia collusi con la ’ndrangheta, emerso all’inaugurazione degli anni giudiziari 2012 e 2013 – era 2,7%, solo l’errore d’aver spostato la virgola, però questo moltiplica il fenomeno per 10. I 44/48 miliardi strombazzati come fatturato del malaffare, e non credibili – uno studio della Bocconi li riduce a 3,49. Le esagerazioni sui valori dei beni sequestrati. La facilità del sequestro preventivo dei beni stessi e quella – o è faciloneria? – di sciogliere comuni per dubbie infiltrazioni mafiose. Cifre e situazioni che, ingigantendo il mostro, ingigantiscono meriti, decorazioni, lustro e carriera di chi lo combatte. Ma massacrano questa terra. La avvolgono di una luce sinistra, ben oltre i demeriti, tarano il turismo, che ne è la vocazione naturale, alimentano il “dagli all’untore”.

L'antimafia non sono certi paladini con la coscienza lasciata sul comodino, né i mestieranti che si ammantano della bandiera. L'antimafia è chi si offre con atti concreti di rettitudine e di moralità, con piccoli gesti di ordinaria e quotidiana legalità, è chi crea cultura senza porgere la mano del mendicante, è chi compie il proprio dovere senza l’ossessione di dover scalare il cielo.

Ora c’è una nuova guida alla Dda di Reggio. Ripari i guasti. Ripristini la credibilità. Faccia sentire noi calabresi uguali cittadini di uno stato di diritto. Dimostri che aveva torto Salvemini – “se ti accusano d’aver stuprato la statua della Madonnina appollaiata sul duomo di Milano, intanto devi riparare all’estero, poi si vede”.Né succeda più che io debba scrivere con un po’ di paura un articolo come questo.