Di Calabria si muore

Di Calabria si muore

Cal      di ANTONIO CALABRO' - Calabria, questi bei tramonti, questo sole, questo mare, basta che ci siano e diventiamo tutti poeti e il tiepido profumo del bosco o l’aria profumata di salsedine e discendiamo- oh come discendiamo- dagli stessi Greci, in persona gli dei si sono radunati ed hanno dato il via alla nostra stirpe, le senti nelle orecchie, quelle urla

marziali e quei peana Achei e sei orgoglioso. Discendiamo, siamo discesi, quanto Pericle, e quanto Socrate, ed Omero, nelle nostre vene.

E poi, e poi, basta che c’è ‘sto sole e basta che c’è ‘sto mare, come diceva quello, il poeta, o forse solo un cantante di Sanremo, ma che importa, Quasimodo ci amava, e il dialetto già è poesia, e il salame piccante è poesia, e le nostre vecchine nero – vestite che sono poesia, sì sì sì, che piangono figli morti ammazzati o congiunti caduti da impalcature e crepati, sì sì sì, Calabria, siamo così orgogliosi, Calabria, così orgogliosi, che il nostro orgoglio è già poesia, certo che lo è, se la poesia è quel peana antico che risuona strano nei nostri cromosomi, nella nostra inconsapevole virtù mortale.

Calabria, tu lo sai, sei nel puzzo di quelle cassette intere di pesci portate al potente di turno, e caro Direttore, e caro Commendatore, e caro Presidente, e caro Compare, e caro Dottore, e tutti questi “cari” seguiti poi dal titolo pronunciato con la prima lettera in maiuscolo, con questa deferenza autentica, tutta autentica questa servitù, noi siamo gente sincera, ci prostriamo con sincerità, con affetto per il padrone e le sue tagliole, che ci vuoi fare questa è la vita quello che conta è lavorare, sì sì sì, basta che c’è ‘sto sole e basta che c’è ‘sto mare, alla fine del mese che te ne fai dell’orgoglio, te lo friggi, no che non puoi, non puoi pensare ad altro, non puoi sperare altro, non puoi vedere altro.

Allora le porti anche tu le tue cassette di pesce e chiedi per favore Eccellenza per favore, sono rovinato spacciato disintegrato ho bisogno di quel posto in barba ai miei fratelli, ma devo pensarmi, devo salvarmi, devo redimermi dalla tua viltà, Calabria, ho bisogno di quel posto e di quella promozione e di quella pensione e di quel beneficio che lo so. Lo so. Mi spettano, tutto mi spetta ma qui funziona così, o dico signorsì o bacio le mani o le cassette con i pesci ed un capretto e faccio la riverenza e pago penitenza o sono fuori, out, finito, spacciato, e mica voglio andare via a Milano, mica ci rinuncio a questo sole a questo mare a questo profumo a queste facce che amo che amo e non lo so perché, neanche vedessi Omero o Afrodite in persona o altre suggestioni umane. Non si può fare a meno di loro.

Diventa così dolce vendersi al teatro, al teatrino di quelle suggestioni, perché poi lo sai, lo sappiamo tutti, lo sanno ovunque, non ci sono i meriti, ci sono i forti e il loro codazzo di domestici e tu sei tra quelli, ma quale dignità del lavoro, sei solo un domestico assunto in virtù di una cassetta di pesce, e il tuo stipendio non ti redime, e la tua famiglia non ti salva, e i tuoi figli non giustificano la tua servitù naturale, sì sì sì, lo sai, certo che lo sai, che è tutto uno sporco trucco uno scherzo che ti giochi una bugia che ti dici, tu discendi dall’Olimpo, Calabrese, sei piegato ma non spezzato, sei solo furbo come Ulisse, è nel solco di una storia c’è la tua, di storia. E allora non t’importa più nulla, che lui meritava mille e mille volte di più il tuo posto di lavoro, e che quello che ti meriti è solo baciare la mano del padrone e sussurrare il suo nome badando a pronunciarlo con la prima lettera in maiuscolo, perché noi Calabresi in questo siamo bravi, come siamo bravi nessuno lo sa solo noi, a pronunciare le iniziali in maiuscolo.

E l’unico orgoglio è quello delle pistole e dei mitra, a me nessuno mi tratta così, mi va il sangue agli occhi e divento una bestia, ma già lo sei, sei una bestia, calabrese, a nessuno importa di questa passione e di questo odio che ti porti dentro, a nessuno può importare il tuo agire sanguinario, il tuo menefreghismo giustificato, è così e basta, sei condannato, mafia e servilismo, tradizione e stanchezza, una terra stanca, questa verità stanca, stanca, stanca.

A quel punto lo vedi, lo senti, lo comprendi in quell’istante di vuoto nella tua mente, perché forse solo a noi la mente si svuota e diventa muta, lo sai benissimo che quel vuoto vuol dire solo una cosa, che non cambieremo mai, che tu, Calabria, con tutto questo sole, con tutto questo mare, con tutto questo Risorgimento risorto e contestato, con tutta la discendenza discesa, lo sai, lo sappiamo, lo sai, che nulla potrà cambiare, come quella roccia terribile dei deserti, uguale nei secoli, arida, perduta, smarrita e morta, in una tempo vivo che ci passa addosso mentre lo vediamo sfuggire come un’ombra silenziosa e lo salutiamo con la mano, con la manina dei bambini che fanno ciao, ciao futuro, ciao presente, ciao passato, è tutto un dolce inganno, una tela di ragno nella quale ci tuffiamo in attesa paziente di essere divorati, già a vent’anni con gli occhi dei vecchi, rassegnati, disillusi, traditi dalla vita e pronti a pronunciare in maiuscolo le parole lutulente di supplica, e a rinunciare ad ogni sogno, consolandoci poi con questo sole, con questo mare, con questa discendenza, con questo lavoro rubato, con questa carriera truffata, con questa bugia mortale che ci ha vinto, ci ha vinto, ci ha vinto.

Calabria, tanto gentile e disonesta pare. Non abbiamo scampo. O servi, o niente.