di GIUSEPPE GANGEMI* - Con il 1783, in occasione del terremoto, entra in gioco la seconda immagine presente nell’incisione di Durer: in Melancolia I, in basso a destra è raffigurata l’immagine di un angelo alato seduto e triste. Si sa che gli angeli sono senza sesso.
Ma questo ha una lunga veste che gli copre il corpo fino ai piedi. Inoltre, ha i capelli lunghi e un viso senza barba, in parte coperto dalla mano sinistra. La veste, i capelli e il viso, coperto a sufficienza per non poter distinguere se ha tratti femminili o maschili, bastano a trasformarlo, all’occasione, in una donna. L’angelo che è, fino al 1782, espressione della melanconia, diventa dopo il terremoto l’immagine di una donna indolente.
Qualcuno degli studiosi, che si sono recati sul posto ad osservare gli effetti di quel terremoto, scrive di aver sentito raccontare di una donna che se ne è rimasta seduta, sulla soglia della propria casa distrutta, indifferente alla figlia, ancora viva, sepolta sotto le macerie. La figlia, commenta il viaggiatore, si sarebbe potuta salvare se la madre si fosse data da fare per aiutarla.
Questa immagine impressiona molto gli Europei colti del tempo. Probabilmente perché, in Europa, può viaggiare sulla memoria della Melancolia I di Durer. Chiunque sente la descrizione di questa donna e della figlia, vera o falsa che sia, può immaginarsi la scena con una semplice reinterpretazione dello sfondo dell’incisione: intorno alla donna è raffigurato un quadrato magico appeso alla parete, un troncato romboedrico ed altri oggetti appartenenti al mondo dell’alchimia; lontano si vede, indistinta, una città (in riva a un lago?). Gli oggetti sono solo in disordine. Basta poco per farseli risalire alla memoria come delle rovine. Inoltre, il troncato romboedrico, non correttamente interpretato, può essere assimilato a un blocco rotto di muro.
E così, l’immagine stereotipata del Calabrese subisce, nel 1783, un mutamento radicale: la melanconia viene reinterpretata in impotenza e indolenza. L’angelo della Melancolia di Durer diventa, nella Calabria del dopo terremoto, un’immagine di indolenza e passività nei confronti delle sventure non imputabili ai governi.
Questa nuova lettura del capolavoro di Durer dura a lungo e riappare ciclicamente o per accusare o per incentivare a uno sforzo di volontà per uscire da questo destino. Tanto è vero che più o meno quella stessa rappresentazione (una donna seduta sulla soglia di casa) io l’ho ritrovata nel mio sussidiario alle elementari, negli anni Cinquanta. Accompagnava una filastrocca di Ettore Berni, pubblicata nel 1899, con titolo La pigrizia.
Il sussidiario faceva trasparire, in più pagine, la paura che quei giovani scolari calabresi con l’argento vivo addosso, si lasciassero travolgere, crescendo, dall’indolenza imputata ai Calabresi adulti. Il maestro costrinse tutti a imparare a memoria la filastrocca (e altre storie analoghe). Per quanto la filastrocca non fosse stata immaginata con riferimento ai Calabresi, come del resto la Melancolia non era stata pensata per loro, è stata spesso usata in Calabria a futuro monito dei giovani per invogliarli a non lasciarsi travolgere dal vizio atavico dei loro genitori e antenati.
Anche questa evoluzione (dalla melanconia alla indolenza) ha una plausibile spiegazione. La mia idea è che le classi dirigenti del tempo del terremoto abbiano voluto imputare alla gente comune di Calabria, non tanto il terremoto, che è stata una fatalità, ma certamente il dopo terremoto, tutto quello che è successo dopo (inefficienze amministrative, epidemie che potevano essere contrastate meglio, corruzione e furto legalizzato – versamento alle casse dell’erario - di metà dei fondi della Cassa Sacra). Date queste pesanti responsabilità, l’imputazione di indolenza si è rivelata necessaria e urgente.
Con il terremoto del 1783, a queste denigrazioni, se ne aggiunge quella secondo cui in Calabria ci sono molti briganti. Un acuto viaggiatore austriaco, Johann Heinrich Bartels, nel 1786, trovando falsa o esagerata questa affermazione, secondo cui i Calabresi siano briganti, nel 1786, ipotizza che ci sia “un qualche segreto interesse se le cose stanno così e non diversamente”. In una diversa lettera, egli rivela questo segreto: è la paura della rivoluzione il segreto che porta a denigrare i Calabresi. Paura che, racconta sempre Bartels, nasce dalla consapevolezza che già un monaco visionario (Tommaso Campanella) era riuscito a fomentare lo spirito di rivolta e aveva convinto migliaia di Calabresi, appartenenti a tutti i ceti, della necessità di una rivoluzione per realizzare un regno utopico.
Per quanto Bartels accusi Campanella di sragionare, non misconosce questo segreto come il vero problema del dopo terremoto: i Calabresi suscitano paura, sia perché esprimono una concezione della vita molto seria (che finisce per apparire melanconica, ma solo perché non dissolve tutto in canzoni e mandolini), sia perché sono andati vicini a cominciare una rivoluzione.
E figuriamoci cosa avviene dopo che la rivoluzione i Calabresi la fanno sul serio nel 1799. Vincenzo Cuoco, Pietro Colletta e Carlo Botta riprendono le ingiuste accuse rivolte ai Calabresi nel dopo terremoto e le rilanciano gonfiate. E da allora in poi è stato tutto un procedere veloce lungo la china così tracciata (ci vorrà poco perché un episodio di cannibalismo nella Napoli del 1799 venga, lentamente, attribuito ai Calabresi i quali, con Lombroso, vengono etichettati come delinquenti nati e “cannibali”).
*docente, università di Padova